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Penuria di pretese

Non sono un piromane, dunque non mi serve una laurea da usare come innesco per uno spettacolo incendiario. La mia persona non è motivo di insonnia né meta di pellegrinaggio, ma resta luogo di culto per l’amor proprio. Abito tra i vivi e tra i morti anche se ogni tanto confondo gli uni con gli altri. Conosco bene me stesso; solo di vista i miei riflessi. Sollevo le parole con il pensiero. Invece di essere così lapidario dovrei ingegnarmi per defungere e risorgere, ma vorrei più di tre giorni d’aspettativa per godermi il sepolcro. Non v’è cogenza che mi obblighi a dare un senso né tanto meno il cazzo, ma soprattutto non vige davvero la necessità di dare un cazzo di senso a qualcosa.
Per quanto possibile cerco di ricamare sul mio tempo dei motivi che mi allietino, ma qualche volta la coperta risulta troppo corta. Non so come terzi mi ritraggano, ma io sono piuttosto affabile. Scanso ed evito con alterigia soltanto coloro che cercano attenzioni o una valvola di sfogo: venditori, predicatori, ragazze isteriche e superficiali, ex compagni di classe che si masturbano con la mia effigie, aspiranti rivoluzionari, estimatori di Bukowski e damerini di diverso ordine e grado. Ho ampio spazio per l’amore e non per coloro che sentendone la mancanza cercano d’identificarsi con le faccende più disparate. C’è un segreto ulteriore da sbloccare in quel postribolo di Fatima, un bonus che ribadisce come il mondo possa continuare tranquillamente i suoi moti di rivoluzione e rotazione tanto senza di me quanto senza coloro a cui mi riferisco. Lo spettacolo prosegue perché non ci sono protagonisti e forse, malgrado la prevedibilità che le è propria, la morte costituisce il più grande colpo di scena.
Adesso vorrei saltare a piè pari nelle quattro del mattino per riaffiorare qualche ora più in là. Il mio sonno sarà troppo breve per portare consiglio o ristoro, ma non lo farò sentire in colpa per il fatto di presentarsi a mani vuote o addirittura amputate.

Francesco

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