Qualche giorno fa sono stato contattato da una persona che ha risieduto per diverso tempo nel mio cerebro. Non mi aspettavo più una parola da costei e invece ne ho ricevute di stimolanti, ma per quanto intenso, vasto e autentico, il mio entusiasmo si è rivelato evanescente.
In me ha prevalso il risentimento e ogni altro proposito è andato a farsi fottere, tuttavia me ne sono reso conto quando avevo già intinto frasi e pause nel curaro. Non sono stato abbastanza lucido da capire l’errore che stavo per commettere o forse ho finto di non comprenderlo così da giustificare il mio sfogo, in ogni caso per me è divenuto tutto chiaro quando mi sono trovato al di fuori della conversazione, ovvero nel momento in cui quest’ultima è collassata. Ho provato a porre rimedio alla mia condotta, ma purtroppo non è servito ad un cazzo. In questa occasione il mio processo introspettivo non è scattato in tempo, ma ancora non riesco a capire se il ritardo sia stato intenzionale o se invece sia dipeso da una carenza temporanea della mia attenzione. Ho scontato l’inesperienza con l’altro sesso e forse anche una disillusione di fondo che io cerco comunque di tenere lontano dalle mie convinzioni. Ahimè non riesco ad avere sempre il controllo dei pensieri e probabilmente ne avrei ancora di meno se m’illudessi di poterlo avere del tutto. Ho perso l’occasione di conoscere una persona affine, però ancora una volta ho compreso i miei meccanismi interiori e così ho finito per accettare più facilmente il prezzo da pagare. Non penso che potesse esserci un inizio diverso per tale riavvicinamento, ma il seguito aveva dei margini di netto miglioramento. Per Freud le emozioni inespresse non muoiono mai, bensì restano sepolte vive e sono destinate ad uscire in modo più brutto: sulla base di questa citazione tendo a credere che una partenza furente come quella di cui sopra avrebbe potuto rivelarsi addirittura propedeutica se fosse stata intesa come una tabula rasa da cui ricominciare a discutere.
Non sono nato imparato e tento di rimediare agli errori senza aspettarmi una seconda, una terza, una quarta, o un’ennesima possibilità; anzi, il mio difetto maggiore forse consiste proprio nella cattiva abitudine di non attendermi manco la prima chance. Ho una personalità spigolosa e merito di non avere nessuno accanto, ma devo ancora stabilire se si tratti di una ricompensa o di un castigo. Mi viene da ridere perché la mia storia è costellata di aborti relazionali, infrequenti e distanti, diversi in tutto meno che nella nullificazione: una mistura tragicomica di romanticismo autistico, di ironia nera e di fraintendimenti tanto puntuali quanto pedanti. Più passano gli anni e più mi convinco che l’unico linguaggio affidabile sia quello del corpo: la Torre di Babele è un ecomostro, nel senso che i suoi echi contengono tutta la mostruosità della confusione. D’ora in avanti, per quanto possibile, mi affiderò alla fisiognomica: il raziocinio se ne farà… una ragione!
Incomprensioni, veleni, silenzi e distanze
Pubblicato sabato 30 Marzo 2013 alle 12:40 da FrancescoSono sette anni che corro. Ho lasciato dietro di me migliaia di chilometri e ho la ferma intenzione di macinarne ancora molti, infatti ogni volta che completo i diciotto e mezzo del mio percorso mi sento più vicino a me stesso, del tutto intimo con la mia parte migliore e profondamente amato da quella spinta per la vita che mio malgrado ho sempre esperito come solipsistica.
Incominciai a correre per pura disperazione, spontaneamente; un processo simile a quello della crisalide. Le prime uscite furono brevi, incerte e notturne, però passo dopo passo divennero sempre più lunghe, risolute e mattutine o pomeridiane: esperienze sia esaltanti che salvifiche. Non rimembro affatto quando sono riuscito per la prima volta a coprire la distanza sulla quale m’alleno tutt’oggi, ma forse ho appiattito il ricordo a forza di calpestarlo sulla strada in cui si è originato e oramai l’ho reso parte integrante di un presente che si rinnova ad ogni mia falcata. La corsa ha una valenza archetipica, la quale s’adatta a molteplici interpretazioni: credo che io all’inizio l’abbia vissuta come una fuga e successivamente come l’inseguimento di una persona migliore. Non so di preciso cosa sono diventato, ma di sicuro non quello che ho superato di volta in volta. Prima o poi dovrò smettere di correre; potrei diventare un invalido permanente, morire in un incidente o invecchiare senza proroghe, ma spero di essere pronto per ognuna di queste eventualità. Anch’io ho attraversato stagioni, emozioni e condizioni atmosferiche assai diverse e qualcosa mi ha sfiorato appena, tuttavia fino a questo momento la mia strada è stata abbastanza sgombra e ho mantenuto costantemente la distanza di sicurezza da quanto avrebbe potuto rallentarmi.
Non corro per scappare da qualcosa, ma forse non ho mai imboccato la direzione che avrebbe potuto condurmi verso traguardi migliori: tutto sommato va bene lo stesso e sono a posto così. Il narcisismo per me è stata una scelta obbligata e la corsa ne è una conseguenza benefica, ma non penso che una diminuzione del primo nuocerebbe alla seconda. Resto autoreferenziale in quanto non ho ancora incontrato una forza in grado di strapparmi da me stesso, dall’autarchia affettiva che considero un’arma a doppio taglio e di cui però non ho ancora ragione di disfarmi.
La crisi economica pone in risalto una putrefazione sempreverde, quella della psiche. La morte è il leitmotiv che non può più essere celato dal consumismo o dalla frivolezza, però smette anche di trovare come unico spazio la cronaca nera e così riguadagna i palcoscenici delle notti insonni. La paura del domani, le incertezze sul futuro, l’ombra della spada di Damocle: tutto ciò angustia chiunque sia cresciuto nell’illusione di potersene liberare con la buona volontà e solamente con questa. Il dramma dell’esistenza travalica i numeri di un conto corrente: su questo punto sono assai esplicite le casistiche dei suicidi dei paesi più sviluppati. Il clima di insicurezza e sconforto può aiutare il seme dell’autodistruzione a diventare una pianta rampicante verso l’oblio.
Vorrei che ogni individuo avesse delle garanzie materiali, quantomeno per dare a tutti accesso alle stesse possibilità, tuttavia mi domando se taluni sarebbero riusciti a conseguire determinati risultati se non fossero partiti da condizioni di netto svantaggio. La crudeltà della natura per me non è sottoponibile alla morale in quanto la precede e la prescinde, ma ai miei occhi resta uno spettacolo efferato che in qualche misura impatta sulla mia empatia. Non ho soluzioni da dare a terzi e non mi aspetto che altri possano averne per me. Di sicuro la clemenza è umana, ma non del mondo in quanto mondo, bensì in quanto proiezione consolatoria e salvifica.
La mia esistenza è mossa dalla spinta verso la vita e forse è proprio per questo che il pensiero della morte è così ricorrente in me. Per Seneca “è cosa egregia imparare a morire” e non vedo come dargli torto. Non sono eterno né voglio esserlo, ma qui semplifico la faccenda e non tengo in considerazione il finalismo, l’escatologia e tutto l’ambaradan dei pensatori o dei presunti tali. Mi confronto con l’idea della fine senza soccombervi ed è questo che mi appaga; ciò mi permette di condurre un’esistenza che mi auguro longeva, ma che in determinate condizioni potrei anche decidere di terminare anzitempo. Emil Cioran ha campato tanto e sosteneva che per lui la vita non sarebbe stata possibile senza l’idea del suicidio; a tutto ciò si riallaccia anche un libro che sto leggendo ultimamente, Il suicidio e l’anima di James Hillman che mette in risalto l’importanza di esperire la morte. Mi reputo fortunato a frequentare gli abissi con chi già ne ha scandagliato i fondali. Thanatos mi apre sempre di più all’amore, o forse alla sua idea: concretizzarla o meno non è così importante e credo che anche questa sia una delle ragioni per cui non mi pesa il perdurare dello stato virgineo, che è tale sia sotto il profilo platonico che sotto quello carnale. Queste non sono considerazioni meste, ma maestose: è imponenza, non impotenza.
Non sono un piromane, dunque non mi serve una laurea da usare come innesco per uno spettacolo incendiario. La mia persona non è motivo di insonnia né meta di pellegrinaggio, ma resta luogo di culto per l’amor proprio. Abito tra i vivi e tra i morti anche se ogni tanto confondo gli uni con gli altri. Conosco bene me stesso; solo di vista i miei riflessi. Sollevo le parole con il pensiero. Invece di essere così lapidario dovrei ingegnarmi per defungere e risorgere, ma vorrei più di tre giorni d’aspettativa per godermi il sepolcro. Non v’è cogenza che mi obblighi a dare un senso né tanto meno il cazzo, ma soprattutto non vige davvero la necessità di dare un cazzo di senso a qualcosa.
Per quanto possibile cerco di ricamare sul mio tempo dei motivi che mi allietino, ma qualche volta la coperta risulta troppo corta. Non so come terzi mi ritraggano, ma io sono piuttosto affabile. Scanso ed evito con alterigia soltanto coloro che cercano attenzioni o una valvola di sfogo: venditori, predicatori, ragazze isteriche e superficiali, ex compagni di classe che si masturbano con la mia effigie, aspiranti rivoluzionari, estimatori di Bukowski e damerini di diverso ordine e grado. Ho ampio spazio per l’amore e non per coloro che sentendone la mancanza cercano d’identificarsi con le faccende più disparate. C’è un segreto ulteriore da sbloccare in quel postribolo di Fatima, un bonus che ribadisce come il mondo possa continuare tranquillamente i suoi moti di rivoluzione e rotazione tanto senza di me quanto senza coloro a cui mi riferisco. Lo spettacolo prosegue perché non ci sono protagonisti e forse, malgrado la prevedibilità che le è propria, la morte costituisce il più grande colpo di scena.
Adesso vorrei saltare a piè pari nelle quattro del mattino per riaffiorare qualche ora più in là. Il mio sonno sarà troppo breve per portare consiglio o ristoro, ma non lo farò sentire in colpa per il fatto di presentarsi a mani vuote o addirittura amputate.
Stanotte mi sono avventurato per impervie vie fino ad una struttura diroccata, un posto che secondo taluni ospita sovente le celebrazioni di messe nere. Io non ho incontrato né uomini incappucciati né ho trovato resti di animali, ma soltanto delle scritte sgrammaticate sulle pareti e un po’ di umidità. Il luogo non è suggestivo e l’alone di mistero dal quale è avvolto è l’orrendo frutto di superstizioni ereditarie che ancor oggi non si scollano dai babbei in cui sono radicate. Se davvero esistesse un diavolo credo che proverebbe un grande bisogno di essere consolato prima di mettersi a mercanteggiare anime per sbarcare il lunario.
Non c’è nulla di spaventoso nell’oscurità, nel silenzio e nell’isolamento, però possono incutere terrore le verità che hanno modo di dipanarsi qualora le condizioni summenzionate si sommino. Mi chiedo per quale ragione una parte dell’umanità ricerchi il male in qualcosa di trascendente quando la realtà quotidiana ne è già così prodiga! In realtà si tratta di una domanda retorica a cui mi sono risposto in varie occasioni, tuttavia questa volta non voglio ripetermi per collocare qualche parola in più in un’annotazione così scarna.