Qualche notte fa è tornata a farmi visita l’immagine di Stephania, una giovinetta compita e al contempo incompatibile, l’ultima signorina con la quale ho interloquito ad una certa profondità. Nel sogno mi sfidava a combattere con dei ragazzi che si trovavano nei pressi di un palazzone e il suo intento non pareva quello di ottenere un pegno (o un pugno) d’amore, ma di gustarsi lo spettacolo come una moderna Messalina.
Ognuno ha nomi e figure che a livello più o meno cosciente riecheggiano al suo interno, persone che ricoprono il ruolo di ministro dell’assenza: è quest’ultima carica a destare quei moti intimi a cui sembra così difficile porre un freno e non già il nome di una delle tante vicarie pro tempore. Per me è importante non nascondere la spontaneità del mondo onirico, anche quand’essa sveli ciò che la coscienza vorrebbe tacere o s’illude d’aver sistemato assieme ad un orgoglio inutile e deleterio. A distanza di molto tempo, quasi a fronte di una dimenticanza incipiente, l’immagine di Stephania perdura nei miei recessi così come altre (invero poche) prima di lei hanno lasciato volontariamente o meno le loro avanguardie a tali profondità. Non sono disturbato da questa presenza, ancora inconsapevole alla diretta interessata nella misura in cui lo è stata finora per il sottoscritto, ma trovo giusto che risieda in me fino a quand’essa non ne subentri un’altra con la medesima transitorietà o per una cristallizzazione: auspicabile, più durevole, oramai quasi utopica e serotina. Dò del tu ai dèmoni (non demòni, i miei), nel senso del daimon greco, perché fanno parte di me e la loro elusione, mascherata da sfuggente indifferenza, mi nuocerebbe più della caduca tranquillità d’ogni insabbiamento. È questa padronanza dei miei recessi che mi dà la calma necessaria per guardarmi dentro senza inquietarmi. Calpesto le inibizioni disarcionate e aggiusto gli abiti dei fantasmi. Non posso avere tutto sotto controllo, però mi è dato vederne una larga parte sotto la giusta luce e questo è un compito che assolve la volontà.
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