Piscio in aperta campagna sotto la luna piena e seguo con lo sguardo i banchi di tetraggine che promettono nullificazione. Vorrei viaggiare nel tempo per fucilare nelle culle i responsabili delle attuali ambasce. Certi aborti sono dei capolavori di chiaroveggenza. Non c’è nulla di intoccabile su questo pianeta. Vige l’obbligo delle catene a bordo, ma pesa di più quello aureo delle croci a cui si aggrappano i cristiani. Quest’anno sono stato buono, perciò spero che la stella cadente si chiami Apophis. Non vedo molti sforzi per guardare cose, eventi e vuoti nella loro piena nudità. Io mi pongo domande che sfiorano gli organi interni e qualche volta le risposte non producono il foro d’uscita, ma vivo più sereno con l’animo crivellato.
Ogni morale è una scatola cinese che non gode d’infinitezza: v’è un limite alle stronzate. Per me si profilano tempi all’insegna di un’accresciuta lucidità: lo sento dal lieve disagio che mi procuro con lo scuotimento di blande convinzioni alle quali non riconosco più valenza alcuna. Ogni petalo può essere colto o contemplato. La commistione di bene e male sfugge alla dualità di comodo. La banalità più granitica e lapidaria è quella che indica la morte come unica certezza. Strappo le consolazioni perché sono debilitanti e noiose. Inseguo la leggerezza correndo a vuoto.
Per me la validità d’una scuola di pensiero non dipende né dai suoi fondatori né dai suoi fautori. La parola è un mezzo e c’è una netta differenza tra la creazione di un insegnamento e la sua applicazione. In alcuni casi forse non è esatto ritenere che l’allievo superi il maestro, in quanto il primo può trovarsi ad agire su un piano del tutto differente rispetto a quello sul quale ha attinto le proprie nozioni. Seneca ha vergato lezioni di grande saggezza anche se la storia l’ha dipinto come un personaggio incoerente, tuttavia credo che in determinati casi sia importante astrarre i contenuti dai loro autori per non lascarsi sfuggire piccoli patrimoni con cui preservare la salute mentale e l’equilibrio interiore. Forse Diogene di Sinope è ricordato più per il presunto domicilio in una botte che per il suo pensiero, quest’ultimo sì coerente con il suo stile di vita, tuttavia per me l’adesione di un pensatore alle proprie idee non aggiunge né toglie nulla a queste.
Non mi servono eroi da incorniciare in cameretta o sotto la volta cranica, non ho bisogno alcuno d’identificarmi in qualcosa o in chicchessia, ma non faccio questa sottolineatura per rivendicare un’originalità risibile che sarebbe lo stesso prodotto dei flagelli succitati: specifico il disinteresse e l’inutilità di quanto sopra perché secondo me quei meccanismi dell’Io sclerotizzano il senso critico. A questo ragionamento si sottraggono le citazioni per ragioni di chiarezza, un po’ meno quelle per pura vanità, anche se identiche. Cerco di separare i contenuti dai contenitori: faccio la differenziata perché discrimino (o almeno ci provo) nel senso più profondo del termine.
Ieri mi sono recato a Roma per prendere il polso della rabbia sociale. Una volta nella capitale ho cercato un corteo in cui intrufolarmi e per trovarne uno ho seguito il rumore di un elicottero della polizia. Sono restato per cinque ore tra la testa della manifestazione e la sbirraglia, ma non ho assistito a momenti di tensione e soltanto davanti al ministero di grazia e giustizia (il minuscolo è voluto) c’è stato lo scoppio di qualche petardo e l’accensione di pochi fumogeni. Ho sentito un po’ di retorica anacronistica e qualche coro simpatico contro morti di varia estrazione, tuttavia mi aspettavo una guerriglia urbana che mettesse a ferro e fuoco le sedi delle istituzioni. Eventi di questo tipo sono più che altro occasioni di socialità su cui qualche cingalese tenta di lucrare pochi euro con la vendita di fischietti, ma non spostano di un nanometro le decisioni dei tiranni. Per me l’unico momento divertente è stato di fronte alla fiamme gialle in assetto antisommossa, infatti sembravano in posa per una foto di classe: se fossi stato un provocatore avrei chiesto loro di sorridere, ma io non facevo parte della protesta e ne seguivo semplicemente il flusso.
Immagino che se la folla avesse voluto farsi sentire davvero avrebbe dovuto caricare le Forze dell’Ordine per appropriarsi delle loro armi (i numeri per farlo c’erano) e correre verso i palazzi del potere per sparare ad altezza d’uomo. Ogni tanto partiva il seguente coro: “Tutti insieme famo paura”; sì, ma ai negozianti che abbassavano le saracinesche e a qualche turista confuso tra le rovine dell’antico impero romano e quelle della moderna quanto merdosa repubblica.
Non ho proprio voglia di essere accusato d’istigazione alla violenza (in questo senso la politica dovrebbe autodenunciarsi) o di apologia di reato, infatti la mia opinione non conta un cazzo ed è semplicemente il risultato di ragionamenti pragmatici sulla scorta del modo in cui la storia si è snodata finora. I confini italiani non sono stati stabiliti con un unanime spirito risorgimentale, ma sono costati vite e sovranità locali, come d’altronde quasi tutti gli aggiornamenti dei planisferi. Non è colpa mia se sono nato in un’epoca pedissequa rispetto alle precedenti, però non potrei contestare la paternità della disonestà intellettuale se non mi sforzassi di chiamare le cose con il loro cazzo di nome. Per quanto mi riguarda l’unica rivoluzione possibile è quella personale, interiore (e su questo tema Jiddu Krishnamurti ha scritto cose pregevoli). Non farei figli neanche se ne avessi la possibilità perché malgrado le apparenze io non sono abbastanza egoista. Cerco di trarre il meglio dal tempo che mi resta da vivere e ho buone ragioni di credere che prima o poi otterrò un distacco pressoché totale dalle nevrosi della mia società.
Qualche notte fa ho sognato di trovarmi su un volo di linea. Ero pervaso da una paura profonda perché l’aereo volava a bassa quota e superava gli ostacoli con manovre appena sufficienti per evitare le collisioni. Ad un tratto ho guardato attraverso il finestrino e ho scorto tavolini e sedie di metallo scuro con un’aiuola tutt’attorno: un’immagine tranquilla che si è fissata in me.
Non ricordo di aver mai fatto un sogno analogo sebbene l’aereo sia un elemento ricorrente del mio mondo onirico, ma di solito precipita e il momento dello schianto coincide con un risveglio brusco: in questa occasione non c’è stato nulla del genere e chissà dov’è atterrato o se sia ancora in volo… Nel mio caso le interpretazioni possono essere molteplici, inoltre l’aereo si presta ad un ampio simbolismo (una volta appannaggio archetipico dell’uccello) che complica ulteriormente l’indagine. Questo sogno può essere foriero di avversità imminenti o l’espressione del timore che qualcosa di grave incomba su di me, però a livello cosciente non avverto nulla del genere: sono reticente con me stesso senza rendermene conto? D’altro canto un sogno simile può anche indicare l’idea di condurre una vita al di sotto delle proprie potenzialità (ciò spiega la bassa quota), ma può anche essere la manifestazione della volontà che un desiderio si realizzi molto presto. In ogni caso non c’è nulla di buono, ma io mi limito a prendere nota e cerco di non farmi influenzare dalle interpretazioni a cui ricorro per spiegare ciò che mi comunica l’inconscio.
Al di là del bene, del male e di me stesso
Pubblicato domenica 18 Novembre 2012 alle 09:16 da FrancescoIl cristianesimo inquina la morale anche in coloro che apparentemente l’avversano, perciò non è facile sottrarsi alle pastoie di questa cultura. D’altro canto c’è il rischio che un affrancamento del genere dia luogo alla pazzia o fornisca la licenza per qualsiasi atto d’offesa. Spesso mi sembra che tutti si affrettino ad aggettivare azioni, vicende, concetti, come se la nudità dei fatti in sé fosse un’oscenità. Mi sono reso conto che per tendere verso una maggiore obiettività io devo rinunciare alle definizioni di comodo, a quei totem morali che costituiscono il perno d’una società apparentemente pacifica. Non posso negare come l’incrocio di Nietzsche con Hobbes dipinga nel modo più brutale e netto la storia dell’uomo da quando costui s’è fatto tribale.
Vale tutto e i principi ordinatori sono fatti da deterrenti, talora imbellettati con le apparenze di una volontà disinteressata e infinitamente buona che in realtà risponde agli stessi meccanismi delle intenzioni più abiette: la prima semplicemente combacia con la convenienza e così sembra più nobile (che aggettivo fuorviante) di quanto sia in realtà. Io non riesco a smentire un quadro così crudele senza forzare l’onestà verso me stesso, un’onestà scevra di valenza morale che qui è intesa esclusivamente come strumento di precisione.
La pericolosità di uno svincolamento dalla morale è insita nella libertà che ne consegue, quella in cui ogni atto non si piega più ad un principio, bensì al caso specifico e finisce così per attuare un dinamismo che ogni volta ridefinisce il bene e il male. Assimilare davvero tutto ciò significa farsi carico di sé stessi, ma anche questa assunzione di responsabilità per me non deve cadere nella trappola del buono o del cattivo, del nobile o del deplorevole: forse si tratta di un percorso che può essere per taluni un ulteriore passo verso la propria evoluzione, o come la definirebbe Carl Gustav Jung “l’individuazione di sé”; per qualcun altro una caduta verso la propria distruzione. A cosa serve un faro nella notte se guida verso ombre distorte? Qua non manifesto amore per la verità, ma disagio per le deformazioni di comodo che comunque mi consentono di lambiccarmi senza dover stringere costantemente il coltello tra i denti.
Non ci sono soltanto gravami in questa configurazione del pensiero, ma anche alleggerimenti e sollievi. In ogni sua interpretazione il cristianesimo talora uccide o segrega con i sensi di colpa, né più né meno come altre malattie teocratiche fanno in maniera diretta ed altrettanto efferata. Ho intenzione di applicarmi con maggior intensità a tutto ciò e so già che non di rado mi vedrò costretto a prestare il fianco a fraintendimenti, ma questi per me saranno un ulteriore mezzo di scrematura e non un ostacolo.
Qualche notte fa è tornata a farmi visita l’immagine di Stephania, una giovinetta compita e al contempo incompatibile, l’ultima signorina con la quale ho interloquito ad una certa profondità. Nel sogno mi sfidava a combattere con dei ragazzi che si trovavano nei pressi di un palazzone e il suo intento non pareva quello di ottenere un pegno (o un pugno) d’amore, ma di gustarsi lo spettacolo come una moderna Messalina.
Ognuno ha nomi e figure che a livello più o meno cosciente riecheggiano al suo interno, persone che ricoprono il ruolo di ministro dell’assenza: è quest’ultima carica a destare quei moti intimi a cui sembra così difficile porre un freno e non già il nome di una delle tante vicarie pro tempore. Per me è importante non nascondere la spontaneità del mondo onirico, anche quand’essa sveli ciò che la coscienza vorrebbe tacere o s’illude d’aver sistemato assieme ad un orgoglio inutile e deleterio. A distanza di molto tempo, quasi a fronte di una dimenticanza incipiente, l’immagine di Stephania perdura nei miei recessi così come altre (invero poche) prima di lei hanno lasciato volontariamente o meno le loro avanguardie a tali profondità. Non sono disturbato da questa presenza, ancora inconsapevole alla diretta interessata nella misura in cui lo è stata finora per il sottoscritto, ma trovo giusto che risieda in me fino a quand’essa non ne subentri un’altra con la medesima transitorietà o per una cristallizzazione: auspicabile, più durevole, oramai quasi utopica e serotina. Dò del tu ai dèmoni (non demòni, i miei), nel senso del daimon greco, perché fanno parte di me e la loro elusione, mascherata da sfuggente indifferenza, mi nuocerebbe più della caduca tranquillità d’ogni insabbiamento. È questa padronanza dei miei recessi che mi dà la calma necessaria per guardarmi dentro senza inquietarmi. Calpesto le inibizioni disarcionate e aggiusto gli abiti dei fantasmi. Non posso avere tutto sotto controllo, però mi è dato vederne una larga parte sotto la giusta luce e questo è un compito che assolve la volontà.
La mia zona è assurta di nuovo alle cronache a causa della forte alluvione che l’ha investita, ma io non ho subito né danni né disagi. Ieri mattina ero sull’Aurelia perché mi stavo recando in quel di Grosseto e all’altezza di Fonteblanda mi sono incolonnato nel traffico. Quando mi sono reso conto che la situazione non si sarebbe risolta presto ho fatto l’unica cosa possibile: ho spento il motore, ho acceso l’autoradio e tramite il cellulare ho messo in sottofondo Keith Jarrett, infine ho preso il mio caro Kindle e mi sono messo a leggere Nietzsche: se avessi avuto anche una tisana al finocchio avrei potuto riprodurre fedelmente qualcuno dei miei tardi pomeriggi. Dopo circa un’ora una poliziotta ha fatto procedere le auto, perciò invece di continuare verso la mia meta ho fatto inversione e sono rincasato prima che l’Albegna esondasse: saggia decisione.
Ho letto e udito commenti prevedibili, impregnati di una stucchevole antropomorfizzazione della natura, come se quest’ultima agisse per ripicca e non vi fosse alcun modo di contenerne i danni. Ci sono persone che hanno subito perdite ingenti, le quali oltre a fare i conti con le tasse, con la crisi economica e la prospettiva di un’autostrada (che infliggerebbe ad alcune di loro il colpo di grazia) probabilmente si ritroveranno in un altro pantano, quello della burocrazia, per mezzo di cui si faranno sentire le sicure assenze dello Stato: vicende analoghe consentono la previsione.
Coriandoli e metastasi: una congerie che riassume efficacemente la mia percezione del mondo. Vorrei disporre di un colpo d’occhio fino al prossimo secolo per avere una visione più completa del presente, ma la mancanza di chiaroveggenza è un grave handicap a cui non hanno ancora trovato rimedio né la medicina moderna né le false speranze dell’antichità.
Le frasi di circostanza sono carcasse semantiche, ottime per fornire pezzi di ricambio ai deliri dei tossicomani in crisi d’astinenza. Gli incompresi non si capiscono tra di loro perché ognuno vuole rivendicare la propria unicità: nient’altro che protagonismo per un film muto. La soggettività è una prigione d’oro e Re Mida un consulente esterno. Chissà qual è la giusta chiave di lettura su questo pianeta, ammesso poi che esista; quel buontempone di Schopenhauer la propose come volontà e rappresentazione, un mio conoscente invece come scialacquamento e cirrosi epatica. Le tornate elettorali solitamente conducono al punto di partenza e potrei scomodare l’eterno ritorno per l’ennesima volta se mi andasse di scherzare su un altro crucco col vizio del pensiero: non è il caso, come sosterrebbe anche un fatalista resipiscente. Sono desolato per i limiti della mente e da ateo non posso confidare in nient’altro, perciò ammetto la sconfitta in partenza e lascio i traguardi al finalismo, con buona pace dei meccanicisti a cui comunque non mi unisco.
Ci sono dei periodi in cui non incontro nessuno, manco degli ostacoli. Io sono estroverso e non credo che la solitudine conferisca carisma né superpoteri. Conosco ottime persone con le quali però ho poche cose in comune o troppi chilometri di distanza, perciò le mie frequentazioni sono sporadiche: ecco svelato l’arcano. Per aumentare la cerchia dei conoscenti dovrei trasferirmi, ma non ho alcuna intenzione di abbandonare il paradiso in cui sono nato e cresciuto.
Sto bene con me stesso e con gli altri, ma le circostanze mi hanno portato a concentrarmi più su colui che che mi appare davanti agli specchi. Paradossalmente credo che nel mio caso i rapporti coi miei simili possano godere di una certa genuinità proprio perché sono in grado di starmene da solo senza scadere nella misantropia. Per me l’amicizia non è granché importante, ma non la disprezzo né l’alimento; mi limito a rilevare nella mia persona la priorità per l’amore di coppia, monogamo, radente la simbiosi. Ogni tanto mia madre, preoccupata come sono tutte le donne che hanno partorito senza sbarazzarsi del nascituro in un cassonetto, mi fa notare che nella mia vita le dinamiche suddette mancano entrambe e così io le dico sempre: “Ci vuole tempo!”. Le clessidre non mi angosciano affatto, anzi, le trovo stupende come oggetti d’arredo, specie se vuote. Non mi faccio contagiare dalla mestizia che aleggia ovunque e quando sono stanco non bado a ciò che penso perché la mente spossata falsifica le elucubrazioni a proprio dispiacere.
Seguo le faccende di questa epoca sterile e decadente senza provare stupore alcuno. Cerco di essere impermeabile alle paure e alle frustrazioni che può veicolare un’esposizione prolungata alla cronaca quotidiana. Talvolta l’insicurezza s’insinua anche in chi non ha ragione di provarla e acuisce problemi di tutt’altro ordine. Non m’informo per senso civico, bensì per allenare la mente ad elucubrazioni spiacevoli; seppur in misura minore, faccio altrettanto con la visione di cadaveri e malati terminali senza rispondere alla morbosità e col solo scopo di vincere il mio disgusto per avere più padronanza di me. Non mi abituerò mai alle fotografie dei corpi divelti né ai filmati di torture e non per un principio morale, bensì per il ribrezzo spontaneo che mi suscita la morte violenta, quantomeno quella di un individuo innocente. Ho un approccio che va al di là del bene e del male, infatti le colpe sono figlie delle parole e di conseguenza con certe astrazioni si può giustificare qualsiasi cosa in virtù di un relativismo di comodo, ma io mi riferisco alla repulsa che provoca in me un corpo devastato da altri individui o da una patologia grave: è una reazione naturale che non mi sento di ascrivere interamente a ragioni culturali.
Penso che possa esserci una rara bellezza in un decesso pacifico e mi auguro che alla fine dei miei giorni io riesca ad essere abbastanza sereno da poterla sfoggiare al gran galà dell’obitorio. L’aria vibra di astio gratuito e ho la sensazione che non siano affatto pochi i frustrati in cerca di un appiglio per sfogarsi sul primo malcapitato. Dietro ogni manifestazione di violenza gratuita io vedo un disagio, però non sono cristiano e porgerei l’altra guancia soltanto se il caso mi desse l’intuizione di ribattere più fortemente con un atto del genere che in modo manesco.