Le stragi non mi sorprendono più da molto tempo, ma non voglio instillare del cinismo nelle mie considerazioni. Negli anni passati ho fatto incetta di cronaca nera e ho imparato che l’omicidio è un’eventualità tutt’altro che remota. Negli Stati Uniti la polemica sulla libera circolazione delle armi è vecchia e stantia, ma ogni tanto subisce una rinfrescata da qualche bagno di sangue che si consuma secondo dinamiche tali da farlo assurgere alle cronache di tutto il mondo.
È difficile strappare un fucile dalle mani d’un redneck, ma è facile dotare un giovane universitario di un arsenale e di motivi per adoperarlo. È sempre questione di tempo: forse da qualche parte c’è una clessidra che detta i turni per quelle stragi in grado di turbare l’opinione pubblica delle cosiddette democrazie occidentali. In Messico i delitti, gli attentati e le torture hanno numeri da guerra civile, tra l’altro in seno a storie che qualcheduno immagina ancora appannaggio della cinematografia. Potrei roteare il mappamondo e fermarlo all’improvviso con un dito per portare qualche altro esempio, tuttavia preferisco fermarmi alla frontiera meridionale: diamine, c’è crisi. Sono altre le notizie che mi conturbano. Anzitutto il bollettino di guerra che quotidianamente giunge dalle borse, con la sola requie del weekend. Sulle banconote da un trilione delle nuove lire io propongo di mettere la faccia della morte: drastico? Chissà. Ne “L’odio“ di Kassovitz c’è una frase ricorrente, “il problema non è nella caduta, ma nell’atterraggio”, perciò mi chiedo che cazzo ci sarà dopo il crollo verticale dell’economia. Un’ultima parola la voglio spendere per quella capa pelata di Napolitano: Giorgio, facci ascoltare che voce hai al telefono!
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