Corro, nuoto in acque cristalline e mi cucino pasti abbondanti. La sera mi piacerebbe mettermi a sedere su un asteroide per scrutare in lontananza qualche esplosione stellare, ma per adesso devo accontentarmi di girare col finestrino abbassato lungo vie in cui, tutt’al più, può collassare qualche debosciato in prossimità del coma etilico.
Non bevo alcolici e di conseguenza non alzo il gomito, ma sollevo la mano per salutare i giorni venturi. Guardo con divertimento e con scanzonata partecipazione le isterie di massa che fanno leva sul campanilismo, ma non ho un inno da cantare né una scommessa piazzata che mi faccia rodere il fegato per il tifo, quello sportivo, ovviamente. Baratto occhiate fugaci con mercantesse di cui ignoro l’identità e le intenzioni, però tutto inizia e finisce nelle collisioni degli sguardi: a me comunque non interessano le constatazioni amichevoli perché non rimborsano il tempo perduto. Avrei molto da sussurrare, d’altronde non ho mai fatto voto di silenzio e non sono tagliato per diventare un monaco cistercense: devo farmene una ragione. Ogni cosa a suo tempo, comprese quelle che un tempo non l’avranno mai. Adoro oltremodo questi periodi di serenità ed evito che distrazioni secondarie mi strappino a quelle primarie, paradisiache: mie proprie. Ateo e felice, io.
Non potrei mai fare un figlio perché dovrei dirgli di non credere a nessuno, manco a suo padre. Questo pianeta non riceverà uno schiavo né una schiava dallo sperma del sottoscritto. Dietro le gravidanze spesso si celano egoismi, retaggi primitivi e cattive intenzioni, ovvero gli enzimi del progresso umano. Amo vivere, ma non me la sento d’imporre quest’esperienza a qualcun altro. Stimo coloro che adottano i bambini invece di sfornarne dei nuovi.
Se tutti ragionassero come me probabilmente l’umanità scomparirebbe nell’arco di un secolo o poco più, tuttavia a me non dispiace l’idea di un’estinzione ordinata e tranquilla. Nel corso della storia miliardi e miliardi di individui hanno subìto sofferenze indicibili: molti altri sono attesi dalla stessa sorte. Tanto dolore è un prezzo accettabile da pagare per lo spettacolo dell’evoluzione? Non ne ho idea, ma non tributerò un’altra quota oltre a quella d’iscrizione già versata ventotto anni fa. Qualcuno si coccola lo stato di diritto e crede di vivere in una democrazia, ma io ritengo che a parte le libertà di consumare e di consumarsi non sussistano grandi differenze coi paesi in cui vigono dei regimi totalitari. Il potere e la ricchezza sanciscono ancora dei divari insanabili e sono falliti tutti quei sistemi che si ripromettevano di livellare le disparità. Qualche volta non è sufficiente manco dare il meglio di sé stessi per sopravvivere.
In Somalia cosa c’è ad attendere un bambino fuori dalla fica della madre? Un’estrema povertà a cui si accompagna immancabilmente la violenza: benvenuto all’inferno, baby. Certo, ogni tanto nasce qualche grande uomo che fa ricordare Spartaco, tuttavia per uno che riesce a prendere l’ascensore sociale quanti restano appiedati nel vuoto di un’esistenza grama? Che concepire un figlio sia un po’ come portare un cavallo all’ippodromo per farlo gareggiare?
Lo sciopero demografico è un ottimo strumento per mettere in crisi ogni sistema di potere, però dovrebbe essere coordinato e protratto fino a quell’estinzione pacifica che ho già tratteggiato. Non ce la faccio a felicitarmi per la nascita di un bambino ed esprimo le più sentite condoglianze davanti ai fiocchi azzurri e rosa. Non sono cinico, ma compassionevole. Comunque io, per ovvi motivi, non ho mai corso il rischio di mettere al mondo nessuno e di nessuno attendo il grazie.
The enemy ain’t Saudi, the enemy around me
Nei mesi scorsi ho pensato che il mio umore seguisse un po’ l’andamento dei mercati, ma ormai le mie azioni sono migliori di quanto potessi prevedere e poco importa che non ci sia nessuno a quotarmele. Forse una moneta verrà abbandonata e le vite prenderanno a gravitare attorno ad un altro conio, ma io mi sento nuovo di zecca e non ho nulla che mi pungoli il cuore.
Ho cominciato a fare le cosiddette ripetute sui mille metri e il mio corpo ne ha subito beneficiato. In altre parole per alcune sessioni d’allenamento accorcio il mio percorso fino a undici chilometri. Sul primo chilometro e mezzo tengo il passo che di solito ho sulla mezza maratona o sui diciotto chilometri, poi mi fermo per una trentina di secondi e cerco di affrontare il chilometro successivo al massimo delle mie capacità aerobiche e, una volta coperti i mille metri, respiro profondamente per un paio di minuti come se dovessi partorire: infine riparto con la stessa intensità e ripeto la procedura per un totale di sette chilometri. L’ultimo chilometro e mezzo invece lo corro con un passo lento e così concludo la sessione.
L’altro ieri ho già potuto notare dei miglioramenti, infatti ho registrato dei tempi tra i tre minuti e venticinque secondi (3’25”) e i tre minuti e quarantasei secondi (3’46”). Ovviamente non sono in grado di mantenere velocità del genere sulle lunghe distanze, ma queste fottute ripetute, che io non ho mai voluto fare, sono indispensabili per migliorare il passo. Comunque il mio interesse non è tanto volto all’incremento delle prestazioni per ridurre i tempi di percorrenza quanto agli scompensi metabolici. Mi sono accorto che il mio fisico s’è abituato da tempo allo sforzo a cui lo sottopongo di solito, perciò è quest’ultimo che dovevo mutare e un cambio d’intensità per me si è rivelato il migliore elemento di differenziazione.
Quando corro al massimo delle mie possibilità io provo esaltazione, soffocamento e avverto le risposte parossistiche dell’organismo. Non adopero manco un cardiofrequenzimetro, perciò non ho proprio idea se il mio cuoricino subisca degli sforzi che potrebbero risultare pericolosi. Spesso mi sento bene, talvolta esausto, tuttavia se un giorno dovessi essere colto da morte improvvisa non potrei che prendermela con me stesso: anzi, a quel punto non potrei più.
Ogni tanto i pensieri fanno orario continuato: stacanovisti improvvisati. A che punto siamo della storia? Quella umana, ovviamente. Già adesso mi domando se le prime risposte di un cervello artificiale saranno timide come lo sono stati i primi tentativi di costruirne uno. Dove s’annida la coscienza? Le risposte organicistiche sono acerbe e quelle metafisiche altrettanto inaffidabili, al punto di sforare il senso del ridicolo.
Per me le domande esistenziali non compongono un ritornello da intonare all’uopo, bensì una melodia su cui talvolta stono per non impazzire. Amata lucidità, più che stretta a me, conficcata! Ogni giorno qualcuno parte in avanscoperta col grado di suicida. Sarebbe bello e talora ingiusto se i sonni quieti potessero devolvere parte di loro stessi per formare la lama che taglia la corda, l’inceppamento che blocca la meccanica dell’arma, il balzo impossibile dell’ultimo treno o il rewind dell’ennesimo salto nel vuoto. Credo che ognuno abbia il diritto di uccidersi, tuttavia considero il tuffo nell’ignoto una disciplina olimpica e per un’esecuzione magistrale ritengo imprescindibile la consapevolezza del gesto: un atto impulsivo non mi farà sollevare la paletta col dieci cerchiato. Salto dalle incognite della vita al pensiero della morte, ma rincaso sempre lungo una scorciatoia d’amor proprio, all’incrocio con i giorni migliori di cui sprono sovente l’avvicendamento.
Dai grandi rincoglioniti di questo pianeta ho imparato a non ragionare con l’ausilio del cazzo né con l’anima, la cui dotazione per altro è ancora oggetto di discussione nelle memorie di qualche ergastolano e di incensurati assai peggiori. Bestemmiare è poco; io voglio tuonare di ritorno.
Velleità e ricordi di un emerodromo senza talento
Pubblicato sabato 23 Giugno 2012 alle 04:00 da FrancescoLe giornate estive m’inducono a correre più di quanto dovrei, ma non riesco a trattenermi e non mi preoccupo di bruciare un po’ di massa muscolare. Il mio percorso attuale si snoda per diciotto chilometri e mezzo: nell’ultima settimana, in due occasioni, sono riuscito a mantenere su questa distanza una media di quattro minuti e sedici secondi al chilometro. In più occasioni ho sognato di correre sotto la soglia psicologica dei quattro minuti sul percorso succitato o su quello della mezza maratona, ma ci sono riuscito soltanto sui diecimila metri.
Qualche giorno fa ho corso e parlato per un po’ di chilometri con un podista della zona che ha trent’anni più di me, un atleta che rispetto moltissimo, e mi ha invitato di nuovo ad allenarmi per gareggiare sebbene nel migliore dei casi io possa puntare a qualche buon piazzamento anche a fronte di miglioramenti sensibili. Queste parole riappaiono ciclicamente e ogni volta ripeto che mi manca il fuoco sacro dell’agonista.
Ho iniziato a correre spontaneamente, come atto di disperazione. Sei o sette anni fa, talvolta di notte, uscivo di casa e cercavo di coprire nel minor tempo possibile un percorso di appena tre chilometri. A ripensarci mi faccio tenerezza e sono costretto a carezzarmi il volto un po’ scavato. Non ho mai combinato granché nella vita, sono sempre stato una persona mediocre, però non incolpo le istituzioni né quel che resta della mia famiglia, infatti immagino che avrei compiuto le stesse scelte anche se fossi stato allevato sotto una campana di vetro.
Ho corso tra gioie e delusioni, sotto il sole, la pioggia e rare volte financo a testa bassa sotto delle grandinate improvvise; quest’anno pure sulla neve. Ho anche pisciato sangue misto ad urina, con lo spavento, invero un po’ ingenuo, di dovermi mettere nelle mani di un nefrologo. Malgrado tutto, io penso che le cose mi siano andate bene finora. Sono più fortunato di quanto delle impressioni estranee possano riferire. Non ho nulla di cui lamentarmi perché mi accetto per quello che sono. Più il tempo passa e più mi sento giovane: da vecchio sarò un feto adorabile.
Qualche giorno fa mi sono trovato a mangiare un tiramisù al cocco in un posto che frequento di rado. Il giorno successivo degli uccellini mi hanno riferito che una cameriera aveva chiesto delle informazioni su di me; se la Cortina di Ferro non fosse calata da oltre vent’anni io avrei pensato subito ad una manovra dei sovietici.
Ammetto che per un momento il mio narcisismo è stato gratificato, ma la festa è stata davvero breve. Mi è bastato poco per inquadrare colei che si era interessata a me e ho impiegato ancor meno nanosecondi a capire che non avrei mai cavalcato il suo entusiasmo. Credo che molti altri al mio posto avrebbero approfittato dell’occasione per svuotarsi le palle nel corpo della ragazza suddetta ma, come ripetuto fino allo sfinimento, se quello fosse il mio scopo mi recherei a troie. Questa signorina ha degli occhi graziosi, non è snella né grassa, però è una fumatrice e mi sono ripromesso di non dare il mio primo bacio al retrogusto del tabacco: puah!
In realtà non mi sono sentito minimamente attratto da quella ragazza, perciò non ho provato neanche a capire se i nostri caratteri fossero compatibili: per me la fisicità e la personalità sono sullo stesso piano, proprio come nella Grecia classica.
Se fossi un po’ cattivo potrei pensare che costei mi abbia notato perché sono l’unico che non se l’è ancora sbattuta, tuttavia non m’è dato sapere se ciò corrisponda a verità e di conseguenza mi limito ad ipotizzarlo per non sopravvalutare la mia persona. Non credo ai colpi di fulmine e non mi faccio accecare dalle tempeste ormonali, ma ne attendo qualcuna dal Sole: vai Helios!
Per me una conoscenza può iniziare da un’affinità platonica o fisica, ma alla fine entrambi i piani devono combaciare ed è forse per questa ragione che alla veneranda età di ventotto anni sono ancora un bigamo vergine: infatti condivido il letto con un cuscino e mi scopo la mano sinistra. Mi piacerebbe conoscere una ragazza adatta a me e condividere con lei il tempo che mi rimane da vivere, ma non ho proprio intenzione di raccattare la prima che, forse complici delusioni e un po’ di genuina leggerezza, vede in me qualcosa che io comunque non vedo in lei.
L’estate è cominciata da un giorno e per me sarà lunga, solitaria, rovente e salmastra, ovvero come tutti gli anni.
Archivio onirico: sogno n. 8 e sogno n. 9
Pubblicato mercoledì 20 Giugno 2012 alle 03:35 da FrancescoSogno n. 8
Mi ritrovai in un monolocale, assiso su un divano giallo. Accanto a me sedevano altri due ragazzi che parevano spaesati; costoro non erano i proprietari dell’abitazione e non sapevano neanche come fossero finiti là. D’un tratto uno dei due mi domandò se fossi frocio e si dispiacque quando gli risposi che non lo ero. Alzai gli occhi sul soffitto per un attimo, ma quando riportai lo sguardo sul mio interlocutore lo vidi completamente nudo mentre penetrava il terzo ragazzo, anch’esso completamente svestito. Mi sorprese cotanta velocità d’esecuzione, tuttavia mi chiesi come mai il ragazzo attivo tenesse le braccia allargate mentre inculava l’altro e prima che io uscissi dalla casa quella posa mi fece venire in mente il Cristo di Rio de Janeiro.
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Sogno n. 9
Vidi una signora che parlava con alcuni ragazzi. All’inizio del sogno compresi immediatamente di trovarmi in un centro di accoglienza per minorenni e mi resi conto d’essere io stesso al di sotto della maggiore età. Davanti a me apparvero diverse stanze in cui dei coetanei si presentarono in modi diversi: affabili, aggressivi, remissivi, indifferenti o tristissimi.
All’improvviso mi ritrovai in un gruppo di ragazzi che ne aveva fronteggiato un altro all’interno della struttura. Uno dei rivali fu catturato e decapitato: la sua testa venne posta sopra una botte e infine incendiata. Non riuscii a staccare gli occhi da quella scena, ma fui più colpito dalle conseguenze a cui sarei potuto andare incontro che dalle atrocità commesse dalla mia banda.
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Suppongo che il ricordo di un vecchio sogno abbia riattivato in me la capacità di trattenere una parte dell’esperienza onirica. I resoconti soprariportati si distinguono per erotismo e violenza, forse una delle coppie più longeve dell’umanità.
Interpreto il primo sogno come simbolo di invidia da parte mia nei confronti dell’omosessualità e anche come frustrazione per non potervi cercare l’amore dato che la natura non mi ha dotato della capacità di essere attratto dagli uomini. Probabilmente se fossi stato omosessuale questo sogno avrebbe potuto svolgersi con orientamenti inversi, perciò ipotizzo che vi si annidi l’utopia di una bisessualità autentica come mezzo per raggiungere il fine ultimo: l’amore.
Non sono in grado di trovare nessuna chiave di lettura per il secondo sogno che non sia una forzatura, di conseguenza mi astengo da qualsiasi tentativo di scovarci dei significati nascosti.
La dietrologia non mi entusiasma e non smanio di rinvenire un complotto in ogni accadimento. Da profano credo che le condizioni di certi stati non dipendano da una congiura massonica, ma dalla cattiva amministrazione delle finanze pubbliche. Per qualcuno la realtà sarebbe durissima da affrontare se non avesse un nemico immaginario contro cui scagliarsi.
Faccio fatica a costruirmi un’opinione fondata sulla crisi europea, difatti dovrei possedere ampie conoscenze di economia e diritto internazionale, però io non vado oltre il baratto e la legge del taglione: mi gioverebbe un corso d’aggiornamento. Per essere un cittadino davvero informato e partecipativo dovrei possedere una numero smodato di competenze, ma almeno conosco i miei limiti e non ammanto di categoricità quei punti di vista che meglio collimano con la mia persona. Credo che nessuno dovrebbe innamorarsi delle proprie idee, un po’ come quei giocatori di poker che sanno rinunciare a delle carte apparentemente buone. Vorrei che la politica fosse avulsa da qualsiasi passione e consistesse soltanto di un freddo calcolo volto a produrre benessere nel maggior numero possibile di individui.
Baratterei la libertà d’esprimermi su questi argomenti se mi venisse offerto un mondo o almeno un continente che non mi desse più ragione di farlo: in altre parole cederei una forma di vanità che spesso appare sotto le mentite spoglie di un diritto inalienabile; non sarebbe una grande perdita in quanto non è raro che dire la propria equivalga a dire una stronzata.
Non mi preoccupa il futuro poiché la più tetra delle ipotesi attuali non è che una passeggiata di salute in un mattatoio a confronto di quanto è successo nel novecento. Mi dispiace per tutte le generazioni che saranno sacrificate in nome di un periodo di transizione, tuttavia al di là del mio tempo io intravedo un’evoluzione che verrà posta in essere da chi ancora deve nascere.
Mi affaccio sopra un muro di gomma per guardare con aria divertita come la mia psiche respinge tutti i tentativi di sabotaggio. Sfuggo al contagio dello sconforto perché mi sono vaccinato ab illo tempore grazie all’introspezione. Qualche volta mi pare che ogni segnale di vita indichi un vicolo cieco, ma io non me ne preoccupo e seguo una bussola cuoriforme.
Vivo ancora da numero dispari in un mondo che spesso mi si palesa binario e non ho ragione di credere che questo andazzo possa cambiare a breve, però non ho un atteggiamento fatalista e cerco d’impiegare bene tutto quel tempo che a me piacerebbe condividere con un’altra persona. Porto in grembo un’inclinazione vecchissima e inespressa che ogni tanto dimentico di esternare per lunghi periodi, tuttavia una tale negligenza non è sinonimo di arrendevolezza: manco per il cazzo. Vengo considerato un introverso scostante, però sono l’esatto opposto e l’ho dimostrato a me stesso in più occasioni. D’altro canto non posso immolare il mio tempo e il mio umore per qualcosa che soltanto in parte dipende da me, di conseguenza vivo come vivo per migliorarmi e non mi gioco la carta di un’atarassia che non mi appartiene: insomma, io faccio di necessità virtù. La vita è un’esperienza così breve che gli atti dolore possono essere posticipati al post mortem: mi piangerò addosso quando le mie cavità oculari saranno luogo di transito per i vermi.
Il ciclo di morte e nascita delle stelle pare destinato a concludersi tra migliaia di miliardi di anni. Mi piacerebbe restare nel cosmo fino allo spegnimento delle luci per farmi rimboccare le coperte prima d’udire l’ultima storia, ma sono una forma di vita che non può ambire a tanto: la natura mi vuole addormentato prima di quel momento e purtroppo non ho modo di disobbedirle, altrimenti non mi farei scrupoli a violare tutte le leggi fisiche del caso.
Una frase presente in un enso giapponese afferma che tutte le creature sono legate, ma certe volte mi domando quali siano i fili e le catene. Qualcosa mi sfugge prim’ancora che sia io stesso ad evadere, però non mi lancio all’inseguimento della mia ombra né delle sue colleghe. Avverto ancora mancanze che travalicano il mio individualismo e dalle quali traggo la conferma della mia umanità. Goccia a goccia, riempio i fiumi di parole in cui mi perdo più di quanto preveda un sano smarrimento, ma entrambe le sponde sono alla mia portata e non mi disturbano le birichinate che di tanto in tanto le inducono a scambiarsi il posto. Quel poco che io conosco del pensiero di Schopenhauer mi basta e mi avanza per non farmi correre il rischio di annoiarmi con ulteriori approfondimenti. Rovisto laddove credo che si annidino sforzi oggettivi e non tra i rifiuti, dati o ricevuti da quanti abbiano assaporato gusti amari per meritare un cantuccio nella storia umana.