Mi piace la lucidità che traspare dalle mie parole. Adoro oltremodo le critiche che muovo a me stesso perché non le esacerbo più del necessario. Faccio le veci d’ogni interlocutore e mi sforzo di essere talmente munifico da anticiparne i pensieri.
Poco importa che le mie esternazioni siano truculente, oniriche, ben ponderate o parzialmente poetiche: in ogni agglomerato di parole vergato dal sottoscritto scorgo, in misura variabile, degli esercizi di attenzione. Non mi areno nella forma, non ho la caratura dell’esteta letterario e non è neanche mia velleità conseguirla, ma punto al mantenimento della lucidità, fino al parossismo. Voglio incatenarmi alla realtà in segno di protesta contro quanto cerchi di negarla; mi sento del tutto libero quando avverto i legacci dell’autenticità e non è sufficiente un paradosso banale per spiegare ciò che provo. Le definizioni hanno poca importanza in contesti così autoreferenziali. Se fossi autodistruttivo avrei dei seri problemi a trovare un modo efficace per piegarmi, perciò sono contento di possedere le carte in regola per transitare in sfere del pensiero più adeguate alla mia indole. Defletto e rifletto quando accade nel mondo e dentro di me. Sporadiche cadute e motti di spirito sono i segni della mia umanità, limiti tangibili che abbraccio fortemente perché non voglio aggrapparmi a delle ideazioni che distorcano il reale, a meno che non dimostrino di poterlo estendere. Non corro il rischio di essere un pioniere di qualche cosa e di conseguenza posso dormire tra due guanciali senza agognare di pormene un terzo sul volto fino alla cianosi.
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