Io non scorgo nulla di nuovo nei problemi del mondo contemporaneo. L’esistenza è spiraliforme. Non c’è una singola notizia che mi sorprenda: ogni evento è la ripetizione di qualcosa che è già successo. La società è una cassa di risonanza del passato, perciò sarei insincero se mi stupissi per delle dinamiche arcinote. Seguo la cronaca, ma cerco di non commentarla, almeno su queste pagine. Lotto strenuamente per non farmi influenzare dal clima che allestiscono i media benché io non ne stigmatizzi troppo l’operato. Trovo che quest’epoca sia ancora primitiva e guardo con diffidenza chiunque predichi la nonviolenza, ma riservo lo stesso atteggiamento ai guerrafondai. Nel corso degli anni ho analizzato il mio modo di recepire certi avvenimenti e così ho imparato a non formulare delle opinioni sull’onda emotiva. Mi sono un po’ spaventato quando ho capito che non esiterei un momento a giustiziare alcuni criminali a sangue freddo, con uno sparo alla testa. Più volte mi sono immaginato con una pistola in mano e un colpevole genuflesso. Suppongo che scene del genere scaturiscano dal mio Super-Io e che compensino parzialmente la mancanza di una figura paterna. Al di là dell’analisi introspettiva, io non sono mai stato in grado di ravvisare qualcosa di sbagliato nel concetto di occhio per occhio e ancor oggi quest’ultimo mi sembra del tutto naturale. Forse un’altra violenza che l’uomo compie nei confronti di sé consiste nel negarla a chi se ne renda autore per primo. La pietà è un concetto pericoloso e applicato male, cristiano nel senso peggiore del termine e lassista, ma non la penserei allo stesso modo se mi trovassi a vivere in un’epoca davvero illuminata. La mia ragione si adegua ai tempi e non tenta di forzarne le chiusure poiché in circostanze del genere non c’è scasso che tenga.
Da quando sono nato i miei contatti con il genere femminile sono sempre stati rari e superficiali. Dall’infanzia fino al termine dell’adolescenza la timidezza mi ha tenuto distante da ogni rapporto col gentil sesso, ma allo stesso tempo mi ha protetto da quelle delusioni che avrebbero potuto distorcere per lungo tempo il mio pensiero se fossero avvenute in seno all’inesperienza d’allora. Oggi circolo ancora nella pubertà e lo stato vergineo mi conferisce un’aura bizzarra perché non lo reputo motivo di vergogna come invece, surrettizia, induce a credere la società maschilista e cristiana di cui sono figlio. Non idealizzo la donna poiché se lo facessi commetterei lo stesso errore di chi ci proietta sopra le proprie insicurezze: io le mie le mando in onda altrove.
La mia posizione è di un immobilismo disarmante, ma è fondata su una ricerca dell’amore che mi è stata suggerita dagli errori dei miei simili. C’è troppa meccanicità nei rapporti interpersonali e io voglio rifuggirne. Ho la necessità di un legame autentico che non nasca dal bisogno, ma che lo crei in seguito all’incontro di due menti lucide. Per me l’amore non è un accordo tacito tra due persone che temono la solitudine: trovo in una relazione di questo genere un atto di sfiducia verso sé stessi, il primo passo verso frustrazioni fecondissime.
Certe cose le ripeto da anni, infatti predico nel deserto e probabilmente continuerò ancora per molto i miei soliloqui tra le dune. C’è qualcosa di peggiore dell’isolamento e dell’emarginazione, ovvero la dimenticanza di sé: per me la vita sarebbe più facile se potessi convincermi dell’esatto contrario, ma proprio non ci riesco. Seppur con gravi pesi nello stomaco, posso accettare di non amare nessuno, ma a patto ch’io non mi perda. Mi snaturo nel ruolo del solitario poiché sono tutt’altro sebbene la mia storia personale e il presente facciano credere il contrario. Ho una vita interiore molto ricca nonostante in me non vi sia alcuna forma di spiritualità ed è questa che fortunatamente mi consente di mantenere alte le soglie di sopportazione e di attenzione. Alcune volte mi sembra che le mie parole infastidiscano qualcuno, come se facessero da eco alle voci sopite della sua intimità. Io mi occupo di me stesso, non di terzi, tuttavia a domanda rispondo. Ho un grande privilegio rispetto ad altre persone benché taluni da fuori lo reputino un problema: in realtà è un’occasione. Non voglio essere meccanico, sono insofferente a tutti gli automatismi: quanti già ne compio senza esserne consapevole!
Alcune volte ho la sensazione che la vita mi passi accanto. Nel caos organizzato di quest’epoca non ho dei punti fermi, ma probabilmente non ne avrei avuti neanche se mia madre mi avesse cacato nell’età dell’oro, intarsiato di talenti su un piedistallo inamovibile.
Gradisco il modo in cui convivono in me il sollievo della mortalità e il piacere di vivere, ma dovrei rafforzare un po’ il primo. Sono un manicheo part time, però mi reputo tutt’altro che un dualista e trovo divertente una tale mescolanza d’antitesi: mi auguro che si tratti d’una ricetta salutare. La mia lingua madre mi rende orfano, ma negli specchi incontro sempre qualcuno verso cui mi azzardo a nutrire un affetto fraterno. Sono straniero in terra natia, trapiantato in un caso che non mi appartiene ma a cui io appartengo: una storia unilaterale. Non devo cambiare il destino né credere in una metafisica che lo ponga al vertice, al centro o di sbieco: io in casa d’altri non muovo nulla. Pago a caro prezzo la mia lucidità, però è un lusso a cui non so proprio rinunciare e di scontato mi prendo le domande oltre al tonno: perché io mi posso lambiccare con pensieri inconcludenti e qualcun altro invece deve crollare a terra dopo una raffica di proiettili? Che sia una mera questione di karma? Un escamotage finalistico vale l’altro.
Non c’entro un cazzo con la persone di mia conoscenza: gente buona, gente cattiva, ma stiamo su pianerottoli diversi. Mi manca una portinaia che abbia in testa una carica di visioni, centouno più miliardi ancora. Brucio una chance dietro l’altra, manco fossi un piromane: se almeno fossi un emule di Keith Richards potrei sniffarmi le ceneri, ma le droghe sono mezzucci da timorati di un qualche dio. Odio il puzzo di tabacco, lo detesto: posso sopportare quello d’incenso, a patto di non subodorare la dulia.
All’inizio della scorsa primavera mi recai alla Torre di Capo d’Uomo, sul Monte Argentario. Là mi beai di un panorama che già altre volte avevo abbracciato con lo sguardo, ma in quell’occasione mi sfidai a raggiungere una sporgenza rocciosa che dalla base della torre aggetta sul mare. Timoroso e cauto mi spinsi fin dove il coraggio mi permise di farlo, ovvero a pochi centimetri dal vuoto, così pochi che questo m’invitò ad accomodarmi nel suo dominio. Provai un grande brivido che ancor oggi, in una certa misura, m’è dato sperimentare dal solo ricordo. Paura e tentazione s’insinuarono in me, però entrambe furono spazzate via dall’acume; da quella fiammella che mi arde dentro e di cui non riuscirei a causare lo spegnimento neanche se ci soffiassi sopra con tutta la stupidità in mio possesso. Quando ritornai alla torre fui soddisfatto. Mi sentii ancora più vivo benché non avessi corso un vero pericolo. Non fu l’adrenalina ad appagarmi, ma qualcosa di più profondo da cui ancor oggi io mi sento mosso: forse si tratta semplicemente d’indole. Quest’anno non mi cimenterò in un’escursione che qualcuno potrebbe attribuire alla gita di un aspirante suicida: mi limiterò a riderne.
In vicende bizzarre come questa o nei miei allenamenti fisici nutro sempre la convinzione di uscirne tutto intero, altresì, a torto o a ragione, non intraprenderei certe sfide personali. Se mi guardassi da fuori in alcuni casi potrei considerarmi un incosciente, ma proprio perché ho una certa confidenza con me stesso posso assicurare con calma olimpica di non andare mai al di là delle mie corde. L’errore può esserci sempre, un cedimento dell’organismo può colpire ogni individuo, ma non metto mai volontariamente a repentaglio la mia incolumità. Lo ripeto spesso e lo ripeterò sempre più forte: io mi amo. Mancanze di un certo ordine m’impongono di stuzzicare la morte a distanza di sicurezza, un po’ come i bambini che se la prendono con le vecchie pazze e stanno attenti a non mettersi nella gittata delle loro scope. Sul mio viso c’è un sorriso conscio e non sarà certo l’ultimo. Malgrado la burocrazia calendaristica già mi stringo forte la primavera.
Sono riuscito a conseguire uno dei due risultati personali che mi ero imposto di ottenere entro i primi di marzo: il completamento del quarto libro. Lo scritto in questione è stato partorito tra il primo di dicembre e metà febbraio; conta oltre duecentomila caratteri ed è un romanzo, l’ultimo, quello che non avrei mai voluto scrivere. Per me è stato un atto catartico, un grande boato che mi auguro abbia accompagnato la mia separazione definitiva dalla narrativa per consentirmi di approdare alla saggistica. In realtà non sono affatto certo di volermi cimentare nella stesura di un quinto testo, ma attualmente non escludo nulla.
Per adesso “Nuovo nichilismo solidale” resterà nel mio cassetto, stampato in poche copie che non potrebbero acquisire valore neanche se io morissi in una maniera consona all’innalzamento dell’auditel di un telegiornale. Quest’ultimo libro è più vicino a “Né d’incesto né d’amore” che a “L’atea verginità, la beata verginità”, ma non c’entra nulla l’ordine cronologico.
A maggio dovrei ottenere eventuali risposte per il mio terzo libro, però non mi aspetto nulla e credo che anch’esso sia da qualche parte (forse nessuna) ad attendermi. Non so quando e se sottoporrò a qualche casa editrice il successore dello scritto che al momento si trova in giro per l’Italia, in graziosi cestini, ora di plastica, ora di metallo. L’importante è ch’io abbia chiuso i conti con un certo modo di scrivere e di ciò mi sento immensamente gratificato.