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Vampate d’indefinitezza

Alcune volte ho la sensazione che la vita mi passi accanto. Nel caos organizzato di quest’epoca non ho dei punti fermi, ma probabilmente non ne avrei avuti neanche se mia madre mi avesse cacato nell’età dell’oro, intarsiato di talenti su un piedistallo inamovibile.
Gradisco il modo in cui convivono in me il sollievo della mortalità e il piacere di vivere, ma dovrei rafforzare un po’ il primo. Sono un manicheo part time, però mi reputo tutt’altro che un dualista e trovo divertente una tale mescolanza d’antitesi: mi auguro che si tratti d’una ricetta salutare. La mia lingua madre mi rende orfano, ma negli specchi incontro sempre qualcuno verso cui mi azzardo a nutrire un affetto fraterno. Sono straniero in terra natia, trapiantato in un caso che non mi appartiene ma a cui io appartengo: una storia unilaterale. Non devo cambiare il destino né credere in una metafisica che lo ponga al vertice, al centro o di sbieco: io in casa d’altri non muovo nulla. Pago a caro prezzo la mia lucidità, però è un lusso a cui non so proprio rinunciare e di scontato mi prendo le domande oltre al tonno: perché io mi posso lambiccare con pensieri inconcludenti e qualcun altro invece deve crollare a terra dopo una raffica di proiettili? Che sia una mera questione di karma? Un escamotage finalistico vale l’altro.
Non c’entro un cazzo con la persone di mia conoscenza: gente buona, gente cattiva, ma stiamo su pianerottoli diversi. Mi manca una portinaia che abbia in testa una carica di visioni, centouno più miliardi ancora. Brucio una chance dietro l’altra, manco fossi un piromane: se almeno fossi un emule di Keith Richards potrei sniffarmi le ceneri, ma le droghe sono mezzucci da timorati di un qualche dio. Odio il puzzo di tabacco, lo detesto: posso sopportare quello d’incenso, a patto di non subodorare la dulia.

Francesco

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