La mia salvezza risiede in una profonda accettazione della morte. Devo contemplare la fine più di quanto abbia mai fatto finora per sentirmi tutt’uno con questo evento ineluttabile. Che io viva altri cent’anni o altri cinque minuti ha poca importanza. Devo andare al di là di cotanta nequizia. Mi sforzo di radicare in me una sincera deferenza per la dissoluzione, però il mio non è basso nichilismo né tanto meno il cominciamento di una spirale depressiva.
Non m’è dato percorrere la strada che sento mia, quella per la quale provo un’inclinazione del tutto naturale, ma su cui per demeriti, coincidenze e mancanze non riesco mai a mettere piede. Per quanto io sia ateo, la cultura occidentale di stampo cristiano mi ha influenzato ugualmente e su quest’ultima, in una certa misura, ho modellato il mio concetto di felicità. Devo liberarmi in maniera ancor più netta degli eventuali rimasugli della società in cui sono cresciuto. Io non ho lo spessore dell’eremita, non sono all’altezza di praticare l’ascesi e, per quanto ridimensionati, ci sono sempre desideri sopiti che di tanto in tanto si destano in me. Anelo a qualcosa che mi pacifichi di nuovo con me stesso e con tutto ciò che mi circonda. Non auspico la mia scomparsa, ma quella di quanto invece non è mai comparso. Paradossi e dualismo: una ricetta antica.
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