Nei momenti in cui compio gli ultimi sforzi per risalire la china non mi affido alla letteratura, non mi perdo nella filosofia della natura di Schelling, bensì ascolto i Manowar perché mi amplificano l’esaltazione. Per quanto gli eventi e la mia stupidità possano offuscarmi, alla fine riesco sempre a ritrovare me stesso ed è immancabilmente un grande piacere. Nessuno nel passato, nessuno nel presente, nessuno di fianco, ma tanto amor proprio con le porte della mente spalancate.
Vivo per i periodi in cui posso celebrare il superamento dei tempi bui. Le prove alle quali il caso mi chiama sono poca cosa rispetto a quelle che devono fronteggiare persone meno esperte alle prese con difficoltà davvero gargantuesche, ma posso vantarmi di rispondere all’appello e non è cosa da tutti. È vero, continuo a calpestare le stesse strade, a sudare sui medesimi percorsi, a leggere e scrivere senza che le parole oltrepassino loro stesse, però mi sento vivo e commosso. La crudeltà della natura nasconde una dolcezza infinta. Voglio protrarre questa sensazione che finalmente ha preso a rifiorire in me, come una pianta rampicante diretta alla ghiandola pineale. Le nuvole si diradano e io non sono il tipo da rimpiangerle. La lotta è stupenda. Forse cadrò di nuovo, forse mai più: l’importante è il presente, nell’accezione più fulminante e istantanea del termine. Non mi preme crogiolarmi nella vanagloria di farcela da solo, di custodire l’indipendenza emotiva ad libitum, però mi sento magnificato dalla consapevolezza di disporne, dalla certezza d’annoverare entrambe nelle mie corde.
Manca meno di un mese all’equinozio di primavera, però avverto già i moti della nuova stagione. Ogni pomeriggio accolgo una sensazione piacevolissima all’altezza dell’epigastrio, come se nel mio stomaco al posto delle farfalle volassero delle aquile reali: ogni anno la stessa migrazione! Mi ero ripromesso di trascorrere un inverno a debita distanza da qualsiasi legame affettivo e ci sono riuscito senza compiere grandi sforzi, tuttavia ho subito lacerazioni improvvise a causa di una ricomparsa inaspettata sul piano platonico: un fuoco fatuo che credevo estinto per sempre. Il peggio è passato e, con la dovuta cautela, m’azzardo a sentire mia una rinnovata leggerezza. Penso che neanche quest’anno scoccherò il primo bacio, però conto ancora una volta di riavere tutta la tranquillità che ho già dato prova di sapermi infondere.
Non sono abbastanza stupido da usare i pensieri come tenaglie nelle quali tuffarmi, perciò devo tornare in linea con i punti più alti a cui i miei slanci mi consentano di assurgere. Non voglio che la pochezza mi tarpi le ali, ma per evitarne il giogo ho bisogno di un Io coeso. Una parte di me anela alla fusione con un’altra persona, un’altra è conscia dell’attuale impossibilità di un’unione e un’altra ancora brama il mio risveglio poiché è la più dolce delle tre: poi ce ne sono tantissime che guardano, prive di nome e la cui presenza posso solo intuire poiché sfugge alla coscienza.
L’altro ieri ho finito di leggere “Orgoglio e pregiudizio”. Devo riconoscere a Jane Austen uno stile mirabile senza cui non sarei stato in grado di sopportare la melensaggine della storia. Ho scelto di sorbirmi un romanzo rosa nel momento in cui ho scartato Bukowski, ovvero quando da alcuni estratti di quest’ultimo ho constatato come alla sua scrittura manchino la crudezza di Céline e la poesia visionaria di Jack Kerouac benché si proponga di cingere demoni simili: inutile ripetermi. Nel caso della Austen ho apprezzato più la forma del contenuto e d’altronde mi sarei sorpreso se fosse accaduto l’esatto contrario. Secondo me questo libro ha delle colpe che lo collocano al di là del genere rosa, difatti per ciò che ha cagionato io lo considero il manifesto di un nichilismo ginecocratico. Invece della produzione di Elizabeth Bennet in quantità celestiali, sospetto che la lettura di “Orgoglio e pregiudizio” abbia dato slancio a molte Charlotte Lucas e Catherine de Bourgh. I maschi non devono neanche sforzarsi di sfogliarne le pagine, difatti tra di loro è più facile trovare un Wickham che un signor Darcy. Quante somiglianze ravviso tra le isterie che s’intuiscono in mezzo alle pruderie dell’Inghilterra che fu e quelle oggi ascrivibili all’apparente emancipazione del genere femminile! Basta cambiar la scocca agli errori per costruirci sopra l’illusione di grandi cambiamenti. A seguito di questa lettura non penso di conoscere qualcosa in più dell’universo femminile, però credo di averne ricavato dei paralogismi che sfoggerò all’uopo.
Mi fa sorridere la curiosità che spinge certa gente a leggere queste pagine. Io non m’interesso delle vite altrui perché il format del reality show non ha mai attecchito su di me, tuttavia non l’ho mai demonizzato. Questo blog è pubblico e di conseguenza ognuno può accedervi, ma nella stessa misura io sono liberissimo di farmi un’idea dei visitatori: ce ne sono certi che sfiorano la morbosità! In parte mi sento onorato, ma se fosse possibile preferirei scegliermi i lettori, che tra l’altro non ho mai messo in conto di avere né su queste pagine virtuali né su quelle di carta.
Memore dell’amore mai sbocciato in pieno tra me e l’informatica, tramite due righe su .htaccess ho provato a disintossicare da questo sito un tizio della mia zona che studia fuori sede, tuttavia non è durato molto. Non sono infastidito da qualcosa, altrimenti mi basterebbe rendere privata tutta la baracca o andare a risolvere di persona questioni trasversali a Internet, qualora ce ne fossero, tuttavia in questo caso non c’è nulla del genere. Regolarmente emergono dal passato degli individui che desiderano riconciliarsi con me, ma io non voglio avere nulla a che fare con ‘sta gente in quanto la reputo merdosa, stantia e stucchevole. Ci sono persone che rispetto e con le quali ogni tanto trascorro il tempo, perciò non sono un misantropo. Non mi reputo manco selettivo, ma semplicemente un osservante dell’igiene personale: non mi piacciono gli stronzi che pendono dal culo, ecco tutto. Mi si può biasimare? Assolutamente no. Oh, tiro lo sciacquone.
Credevo che mondi affini potessero collidere senza collassare e io sia dannato se non dovessi restarne convinto per il resto dei miei giorni! L’umanità pecca di umanità, manca a se stessa e si cerca al di sopra di sé o al di sotto dei più bassi istinti di cui ancor oggi soffre il retaggio atavico. L’evoluzione per me non è una spietata teoria, ma un concetto aulico che tende a valorizzare il tempo di cui si compone la mortalità del mondo biologico.
Non voglio soffrire alla vista di una clessidra e qualcosa in me si ribella sempre alle derive della mestizia. Voglio pensare che una certa inclinazione sia l’eredità di un lontano avo che ha lottato contro se stesso e il mondo quando quest’ultimo era ben più selvaggio di quanto sia nell’epoca attuale. Sono il prodotto di chi è venuto prima e ha affrontato la stessa panoplia di sensazioni discordanti, perciò con lo sforzo necessario posso evitare di ripetere gli errori commessi dai miei predecessori. Quante vite sono state spezzate in nome di un’idea sbagliata? Quanti anni sono andati persi per degli scopi trafugati da tradizioni anacronistiche? Con tutto il tempo perso dal genere umano scommetto che si potrebbe eguagliare la vita di una stella, una delle tante a cui ancor oggi superstiziosi d’ogni risma si raccomandano. Anch’io ho una buona stella, però è una cazzo di supernova. Nel dolore sopportabile che esperisco in questo periodo io mi sento libero e vivo, ma non voglio certo arenarmici: posso fare di meglio.
Affiancherò chi vedrà in me qualcuno da affiancare a sua volta, fino ad una fusione autentica da cui ogni individualità sarà ben riconoscibile pur restando unita all’altra. Sfuggo all’identificazione e all’oggettualità perché sono troppo minute e limitate per pienarmi: a tempo debito Io sarò Es.
Qualche volta fatico a credere alle coincidenze, però finisco sempre per considerarle tali, senza mai ricamarci sopra: non sono bravo nei lavori all’uncinetto. Dopo tanti anni dalle mie parti ha nevicato e io ho interpretato quella roba bianca come manna dal cielo, difatti ne ho approfittato per correrci sopra e l’ho fatto per diciotto chilometri. Le condizioni avverse mi hanno permesso di risvegliare un orgoglio primigenio e mi sono esaltato a solcare la neve come se fossi rimasto l’ultimo uomo sulle calotte polari.
Se non mi fossi confrontato con il freddo e col terreno pesante non avrei potuto trovare altrove un nutrimento altrettanto efficace per la mia autostima in questi tempi di carestia e tribolazione. Forse un giorno per mettermi alla prova mi cimenterò in uno sforzo che mi sarà fatale e allora di me non resterà nulla. Alcune volte ho l’impressione che dietro la mia attività fisica in realtà ci sia l’inseguimento di una morte prematura, la ricerca dell’infarto perfetto, il raggiungimento di una congestione principesca. Forse sono guidato da un desiderio inconscio di autodistruzione che mi spinge a cercare un modo accettabile di crepare dietro apparenze edificanti, salutari e meritorie. Tutto ciò è mera speculazione! Io sono vivo, lucido, giovane e forte. È vero, sono sprovvisto di legami anche se percepisco delle catene, però abito nel mio tempo e non annego nei piagnistei. Ogni tanto ho la sensazione di adorare questa lotta interiore, come se non cercassi davvero la sua fine. A differenza di quanto avviene nel mondo, i conflitti sono stati propedeutici per me, ma neanche Achille fu immerso completamente nello Stige e dunque è normale che io presenti più di un tallone vulnerabile: d’altronde sono figlio di una mortale, mica di una nereide.
Nel giorno degli innamorati rinnovo l’affetto per me stesso e la promessa di proteggermi. Fosse possibile, mi bacerei. Io sarò con me, qualunque cosa accada, nella buona e nella cattiva sorte.
E ancor sciabolo tra nembifere circostanze
Pubblicato lunedì 6 Febbraio 2012 alle 12:47 da FrancescoAdesso tengo la bestia per il collo e stringo sempre di più la mia presa. Le riflessioni degli ultimi giorni e una lunga dormita mi hanno giovato oltremodo. La lotta ha smesso di essere impari, ma è ancora lontano il momento di cantar vittoria. Non c’è nessuno che mi possa aiutare e nessuno ha modo d’intromettersi in questo caso, ma per fortuna non ho motivo di preoccuparmi di una ingerenza poiché non vanto una scuderia di alleati né un harem da cui qualcuno possa tentare di lanciarsi in mio soccorso: il risparmio di inutili martirii!
Sono questi travasi di veleno nella psiche che mi esaltano ogniqualvolta mi renda conto di come non possano essermi fatali, difatti è l’incertezza della loro efficacia che puntualmente m’espone ai colpi sotto la cintura. La perdita della madre, il cancro, la povertà, la catastrofe atomica, ogni sconfitta possibile e ogni tradimento, tutto ciò io contemplo negli inferi presso cui possiedo una seconda casa; altro poi si aggiunge, amorfo e subdolo, pronto a strapparmi della vita prima che sia la vita stessa a disfarsi di me. Posso accusare i colpi e cadere molto in basso, posso financo accasciarmi e sembrare spacciato, ma c’è sempre una forza interiore che mi consente d’eseguire un colpo di reni. Non è cambiato nulla nella mia esistenza da quando la componente maligna si è acuita, ma sono rientrato in possesso della freschezza necessaria per far sì che la mia lucidità non mi serva soltanto a rendermi conto della profondità delle ferite.
Non esistono mercenari che possano affrontare simili battaglie, non c’è delega d’affibbiare né la consueta divisione della mia specie in uomini e caporali: col cazzo che io sto solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole, ma in equilibrio sulla ghiandola pineale vergato da rinnovato vigore: ed è subito acume. Fanculo Quasimodo, sono gli echi di Spartaco che devono giungermi. Non mi piacciono i tatuaggi, non vanto le cicatrici delle persone che si reputano vissute, bensì io ricorro alla levigatezza di una pelle nuova a ogni muta: mi svesto con le vipere. Andiamo avanti.
La mia salvezza risiede in una profonda accettazione della morte. Devo contemplare la fine più di quanto abbia mai fatto finora per sentirmi tutt’uno con questo evento ineluttabile. Che io viva altri cent’anni o altri cinque minuti ha poca importanza. Devo andare al di là di cotanta nequizia. Mi sforzo di radicare in me una sincera deferenza per la dissoluzione, però il mio non è basso nichilismo né tanto meno il cominciamento di una spirale depressiva.
Non m’è dato percorrere la strada che sento mia, quella per la quale provo un’inclinazione del tutto naturale, ma su cui per demeriti, coincidenze e mancanze non riesco mai a mettere piede. Per quanto io sia ateo, la cultura occidentale di stampo cristiano mi ha influenzato ugualmente e su quest’ultima, in una certa misura, ho modellato il mio concetto di felicità. Devo liberarmi in maniera ancor più netta degli eventuali rimasugli della società in cui sono cresciuto. Io non ho lo spessore dell’eremita, non sono all’altezza di praticare l’ascesi e, per quanto ridimensionati, ci sono sempre desideri sopiti che di tanto in tanto si destano in me. Anelo a qualcosa che mi pacifichi di nuovo con me stesso e con tutto ciò che mi circonda. Non auspico la mia scomparsa, ma quella di quanto invece non è mai comparso. Paradossi e dualismo: una ricetta antica.
La mia psiche fatica. Sono ancora pervaso dalle lacerazioni affettive e tento di arginarle con un immobilismo temporaneo del pensiero. Potrei ripararmi in questioni più grandi di quelle che mi riguardano direttamente, però un espediente del genere mi consentirebbe soltanto di ritardare l’ennesimo confronto con le mancanze in me cronicizzatesi.
Sono dilaniato da un’arma a doppio taglio. Ho la piena consapevolezza di miei pregi quanto dei miei limiti, ma non riesco a trovare uno sbocco per i primi e i secondi non sono abbastanza forti da smemorarmi. In altre parole è come se fossi continuamente sottoposto ad un’operazione a cuore aperto senza anestesia in quanto la mia lucidità non si fa mai da parte. Di natura e forse per vissuto ho una sensibilità accentuata, ma questa mi ucciderebbe se non avessi un certo controllo su me stesso. Non mi manca la volontà di fare il passo decisivo, tuttavia non trovo un terreno su cui compierlo e per questa ragione mi tengo in equilibrio su una gamba sola. Le lotte interiori di cui sono protagonista non hanno nulla d’originale, ma posso imprimere univocità sul modo d’affrontarle. Devo vincermi, nel senso attivo e passivo che può avere tale espressione. Non ho i postumi di una crisi adolescenziale né anticipo quella di mezz’età: solo lungimiranza.