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La fiera del supplizio

Un pomeriggio, durante il mio soggiorno a Taiwan, mi recai in una grande libreria di Taipei con l’intenzione di acquistare un paio di libri in inglese e uno dei due fu “The Rape of Nanking” di Iris Chang, di cui tra l’altro esiste anche una traduzione in italiano.
La lettura del testo mi ha portato a diverse conclusioni. Anzitutto mi ha confermato il grado di ferocia che i giapponesi adottarono nel corso della Seconda Guerra Mondiale, di cui supponevo erroneamente che la costruzione della cosiddetta “ferrovia della morte” in Birmania fosse stata la massima espressione. Ho trovato anche una conferma per quanto riguarda l’uso delle bombe atomiche da parte degli Stati Uniti per porre fine al conflitto nel Pacifico. Ho sempre sposato la tesi di alcuni storici secondo cui il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki costrinse l’Impero Giapponese a una resa che nel caso in cui non fosse giunta avrebbe prodotto un numero considerevolmente maggiore di vittime, sia tra le fila degli Alleati che tra quelle del Sol Levante. Ovviamente lo sdegno di alcuni contemporanei non tiene conto di quanto e come si sarebbe protratto il conflitto senza un’azione così drastica che Truman fu ben lieto di non dover compiere una terza volta.
Il massacro di Nanchino secondo me viene giustamente definito come un olocausto dimenticato. Nel mondo occidentale pare che gli ebrei abbiano l’esclusiva sulle persecuzioni e ancor oggi certi politici tirano in ballo la Shoah per argomentare le loro idee con dei parallelismi che ogni tanto si rivelano piuttosto imbarazzanti.
Nell’arco di alcune settimane, a Nanchino, i giapponesi uccisero circa trecentomila civili, ma non si limitarono a compiere un eccidio e dettero prova di un sadismo pari a quello nazista o forse addirittura maggiore in alcuni frangenti. I civili agonizzanti erano usati come bersagli viventi per l’uso della baionetta, le donne venivano mutilate, i genitori venivano costretti ad avere rapporti sessuali con i figli, altre vittime venivano sepolte vive, le decapitazioni erano innumerevoli e i cadaveri (o ciò che ne rimaneva) subivano scempi di vario genere.
Non credo che possa essere istituito un concorso per eleggere il massacro più cruento, tuttavia nei testi di storia che finiscono sui banchi di scuola forse dovrebbe trovare spazio anche questo evento, magari un paio di paragrafi prima di quello in cui solitamente viene raccontato l’operato dell’Enola Gay e del Bockscar.
Infine, oltre alle considerazioni superficiali di carattere storico, ho ricavato l’idea che l’empatia collettiva possa essere una questione prettamente geografica e cronologica. Non importa tanto cosa sia successo, bensì dove e quando oltreché al modo in cui siano rese note le coordinate spaziotemporali. Nella storia come nella politica ci sono troppi paralogismi e faziosità eccessive. Credo che i cambiamenti avvengano inevitabilmente al di là delle idee con cui la superbia dei vincitori (oggi si chiamano “eletti”) prova a rendersene interprete e attuatrice. Determinismo e meccanicismo non sono concetti che mi appartengono. Non disturbo la Terra, la lascio ruotare attorno al suo asse e ringrazio chiunque si prenda la briga di identificarsi con le ideologie o le correnti di pensiero, difatti se non ci fossero così tanti amanti dei giochi di società, anch’io, invece di perdere tempo a scrivere cose del genere, dovrei impegnarmi a mantenere gli squilibri del mondo in cui sono nato.

Francesco

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