Le mie giornate sono scandite dalla tranquillità e dalle abitudini salutari che popolano il fronte diurno del mio tempo. Le inquietudini mi snobbano: di questo passo mi ammalerò di serenità. Devolvo sempre una piccola oblazione ai miei rapporti sociali e spesso quest’ultima consta di parole vacue, ciarpame dialettico e pezzi di vernacolo che pendono dalla lingua italiana. Non ho in serbo grandi sorprese per il mio futuro e non aspetto una perturbazione di manna. Io non saprei proprio cosa farci con un miracolo e, per non lasciarlo alle mercé della polvere, tutt’al più potrei affittarlo d’estate alle coppie in crisi.
Non vivrei mai in una casa di marzapane né in una di quelle torri d’avorio che spesso vengono servite in una campana di vetro. I cipressi mi guardano dall’alto in basso, ma io sono abituato a quelle occhiate oblique e di conseguenza non ne risento affatto. Per ragioni anatomiche non posso unirmi agli scodinzolii dei miei gatti, però sono in grado d’imitare la placidità dei felini che mi circondano. Melodie moderne e distorte, composizioni barocche e tempi dispari: ecco quali elementi s’insinuano nei miei silenzi. Ultimamente, pensando a me stesso, mi viene in mente un frammento di Friedrich Nietzsche su “Così parlò Zarathustra”: “Hai scagliato te stesso in alto, ma qualsiasi pietra scagliata deve cadere!”. Nei miei scritti ricorre spesso il tema della morte, ma in quest’ultimo non instillo mai tristezza e allo stesso tempo evito con cura di edulcorarlo con dolcificanti metafisici. Io non vivo ogni giorno come fosse l’ultimo e non intendo imparare a farlo per accumulare dei significati esistenziali da sbandierarmi addosso. Mi pare che ogni dì abbia la sua personalità e per quanto mi è possibile cerco di assecondarla senza tuttavia assoggettarmi al fatalismo né ad altre concezioni di tal fatta.
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