L’estate comincia ad allontanarsi dai calendari benché all’equinozio d’autunno manchino ancora ventiquattro giorni. Gli ombrelloni si chiudono piano, come se fiorissero al contrario. Gli stranieri tornano a casa e allo stesso tempo gli estranei si moltiplicano. Uomini abbronzati e donne con i seni nivei concludono le collaborazioni carnali. Anche le infatuazioni stagionali vengono cessate di comune accordo, ma spesso ne resta qualche traccia in una foto digitale o in una sequenza numerica che quasi sempre corrisponde ad un’utenza telefonica. Per qualcuno s’avvicina il primo giorno di scuola, il primo giorno di lavoro o il primo giorno dopo l’ultimo di una vita intera.
Gli esami non finiscono mai per i malati cronici né per gli universitari svogliati. A me non serve un corso di laurea per raggiungere i titoli di coda, però frequenterei volentieri una facoltà se fosse in grado d’estendere le mie. Non mi affianco a nessuno perché il tempo lo seguo a una velocità diversa: lo accompagno, mica lo rincorro. Nessuna novità all’orizzonte e neppure un motivo per rammaricarmene, però davanti a me scorgo ancora ampie distese di terra su cui correre da solo. Alzo soltanto pesi di ghisa e non ne ho altri da sollevare. Potrei aggiungere molte cose alla mia vita, ma io prediligo uno stile minimalista; tutt’al più sono disposto a congiungermi. I tempi sono maturi, però a giudicare dal sapore del liquido rachidiano pare che i cerebri siano ancora acerbi. Non devo inventarmi nulla, bensì dovrei prenotare un last minute per l’iperuranio dimodoché possa ricordarmi subito quanto devo ancora apprendere sul campo incolto dell’agape, senza passare per Parco della Vittoria né attraverso l’enantiodromia
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