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Introspezione retrospettiva: seconda parte

Tra l’infanzia e l’adolescenza mi sono sentito sempre inadeguato al cospetto della vita. Credevo di non essere affatto in grado di piacere agli altri, perciò spesso tendevo a isolarmi in silenzio o assumevo dei comportamenti asociali, volgari, talvolta persino aggressivi. Mangiavo molti dolci per colmare i vuoti affettivi, ma ovviamente non me ne rendevo conto, con buona pace del povero cesso che per oltre una decade ha ospitato i miei tocchi di merda. All’origine del mio disagio penso che vi sia stato un concorso di cause. In primis, ricordo un episodio che mi segnò.
Quasi certamente avevo cinque anni quando una sera d’estate i figli dei vicini mi esclusero dal loro gruppo e mi lasciarono davanti alla porta chiusa di una casa in cui erano entrati prima di me per giocare insieme. Io non ebbi alcuna reazione particolare, ma scesi le scale e rincasai. Da piccolo ero tremendo e fastidioso, perciò non escludo che l’assenza di proteste da parte mia sia stata in realtà un’ammissione di colpa (anche solo inconscia) e dunque posso supporre che io abbia ritenuto (giustamente) d’essermi meritato quel trattamento. 
In seguito stentai sempre di più a relazionarmi con gli altri perché temevo di rivivere lo stesso dispiacere. A quell’età non sapevo ancora scorgere né analizzare i movimenti del mio mondo interiore. Comunque l’episodio dell’esclusione mi espose ancor di più al clima familiare che era piuttosto teso, tanto che non c’era nulla che ricordasse anche solo per sbaglio il Mulino Bianco; manco i biscotti di quella marca arrivavano in tavola e difatti bruciavano prima in quell’atmosfera domestica, quasi come delle meteore ignifere. Il mio presunto padre era occupato con le amiche di mia madre e mia madre tra le sue priorità aveva l’onere di soffrirne. Mi ricordo ancora quando il mio presunto padre mi parcheggiava in sala giochi sotto l’egida del titolare (un suo amico) e se ne andava per qualche ora: io passavo i pomeriggi là, con i videogiochi, e mi divertivo.
Immagino che anche la mancanza di una figura paterna abbia contribuito a rafforzare in me una condotta erronea per tutta la fase del mio sviluppo, ma non posso certo negare quanto mi sia piaciuta quella libertà e probabilmente è stata più propedeutica di quanto avrebbe mai potuto esserlo una presenza soffocante.
È troppo facile accusare i propri genitori di essersi comportati male e io non mi avvalgo di una giustificazione del genere, altrimenti oggi, malgrado tutto, non sarei così radicalmente diverso da com’ero un tempo. Nessuno può imparare a crescere un figlio e la pedagogia non è una scienza esatta. Chi mi ha messo al mondo ha provato a tirarmi su, ma sotto molti aspetti ho dovuto rimediare io alle mancanze altrui. Comunque ho goduto anche di alcuni privilegi e ancor oggi devo molto a mia madre, perciò è giusto che io sottolinei anche questo particolare.
In fin dei conti non me la sono mai passata male e se pensassi il contrario allora dovrei proprio chiedermi come valutare le esperienze di quei miei coetanei che sono cresciuti nell’indigenza, tra storie di abusi e indifferenza. Certi figli tendono a fare i vittimisti per non prendersi alcuna responsabilità in merito ai loro demeriti, ma io non ho nulla da rimproverare a nessuno e sono contento di come mi sono corretto. Il mio carattere tra l’infanzia e l’adolescenza mi ha portato a non coltivare amicizie profonde né rapporti con l’altro sesso, infatti mi sono tagliato fuori da molte dinamiche sociali, ma questa mancanza, per quanto possa essere ritenuta gravosa, mi ha facilitato la vita. Oggi sono abbastanza maturo per intrattenere rapporti di ogni tipo e potrei persino avere una relazione, ma sono uno sconosciuto sereno e questo paradosso mi fa morire dalle risate. Va bene così.

Francesco

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