L’estate comincia ad allontanarsi dai calendari benché all’equinozio d’autunno manchino ancora ventiquattro giorni. Gli ombrelloni si chiudono piano, come se fiorissero al contrario. Gli stranieri tornano a casa e allo stesso tempo gli estranei si moltiplicano. Uomini abbronzati e donne con i seni nivei concludono le collaborazioni carnali. Anche le infatuazioni stagionali vengono cessate di comune accordo, ma spesso ne resta qualche traccia in una foto digitale o in una sequenza numerica che quasi sempre corrisponde ad un’utenza telefonica. Per qualcuno s’avvicina il primo giorno di scuola, il primo giorno di lavoro o il primo giorno dopo l’ultimo di una vita intera.
Gli esami non finiscono mai per i malati cronici né per gli universitari svogliati. A me non serve un corso di laurea per raggiungere i titoli di coda, però frequenterei volentieri una facoltà se fosse in grado d’estendere le mie. Non mi affianco a nessuno perché il tempo lo seguo a una velocità diversa: lo accompagno, mica lo rincorro. Nessuna novità all’orizzonte e neppure un motivo per rammaricarmene, però davanti a me scorgo ancora ampie distese di terra su cui correre da solo. Alzo soltanto pesi di ghisa e non ne ho altri da sollevare. Potrei aggiungere molte cose alla mia vita, ma io prediligo uno stile minimalista; tutt’al più sono disposto a congiungermi. I tempi sono maturi, però a giudicare dal sapore del liquido rachidiano pare che i cerebri siano ancora acerbi. Non devo inventarmi nulla, bensì dovrei prenotare un last minute per l’iperuranio dimodoché possa ricordarmi subito quanto devo ancora apprendere sul campo incolto dell’agape, senza passare per Parco della Vittoria né attraverso l’enantiodromia
In quest’epoca di pace apparente ci sono individui che cercano ugualmente un rifugio e alcuni di loro lo trovano nella cultura. Mi fa sorridere chiunque ritenga che sia sufficiente coltivare le virtù dianoetiche per tenere a debita distanza i propri limiti. Io non entro in una torre d’avorio, però una pisciata prospiciente il suo ingresso sono sempre disposto a concederla.
Pare che per qualcuno la lettura di certi libri e la frequentazione di determinati corsi forniscano un voucher con cui ritirare subito un attestato per la propria personalità. Ai miei occhi la sete di sapere è pressoché identica a quella di potere ogniqualvolta dismetta i panni della necessità evolutiva per diventare la tonalità dominante del proprio autoritratto. L’edonismo intellettuale è piuttosto squallido. Per fortuna non sono abbastanza acculturato da tenere più alle nozioni che a me stesso. Non di rado odo invettive vivaci contro certe figure dell’intrattenimento televisivo e solitamente queste critiche feroci provengono da individui che sentono il bisogno di sminuire quanto risulti contrario al loro mondo per avallare ulteriormente quest’ultimo. Nemmeno io sono sempre estraneo a questi infantilismi, perciò posso tenere per me qualche frase di scherno da rivolgermi all’uopo; come si suol dire: “Prendi l’arte e mettila da parte”.
Nella mia esistenza non cerco di forzare ogni cosa dentro determinati confini per aggrapparmi all’illusione di controllare ogni aspetto della vita. Io non sono né la somma delle mie conoscenze frammentarie né il feto di un futuro gravido e non sento proprio la necessità di definirmi poiché già negarmi per me costituisce un certo impegno. La morte di Raimon Panikkar mi ha riportato alla mente Jiddu Krishnamurti e in particolare un passaggio di una sua conferenza che ho letto mesi fa in quel di Taiwan.
“Per poter sperimentare la morte mentre siamo ancora vivi, dobbiamo abbandonare ogni sotterfugio mentale, ovvero tutto ciò che ci impedisce un’esperienza diretta. Siamo plasmati dal passato, dalle abitudini, dalla tradizione, dagli schemi di vita; siamo invidia, gioia, angoscia, zelo, godimento, ognuno di noi è questo, ovvero il processo di continuità. Ognuno è attaccato alle proprie opinioni, al proprio modo di pensare, ed ha paura che senza i suoi attaccamenti non sarebbe nulla, allora si identifica con la casa, la famiglia, il lavoro, gli ideali… ma quanti sono quelli capaci di porre fine a tale attaccamento e realizzare il distacco? È necessario comprendere i processi del pensiero e la comprensione del pensiero è la cessazione del tempo. Il pensiero, tramite un processo psicologico, crea il tempo, e il tempo poi controlla e configura il nostro pensiero. Il senso di continuità è stato edificato dalla mente, quella mente che guida se stessa per mezzo di precisi schemi e che ha il potere di creare ogni sorta di illusione. Lasciarsi intrappolare mi sembra una scelta tanto inutile quanto priva di maturità”.
Non mi ritengo ancora in grado di esperire il distacco a cui si riferisce Krishnamurti e di cui comunque fiuto la validità, però lo inquadro come un atto episodico da compiere a tempo debito e nient’affatto come un invito a praticare un’ascesi vitalizia. D’altronde egli derideva spesso i santoni, i guru, le meditazioni e ogni altro balocco mistico con un’ironia fantastica. Ricordo che una mattina, mentre ero intrappolato nella metropolitana di Taipei, sul mio volto comparve per l’ennesima volta un’espressione divertita e in quell’occasione l’innesco dell’ilarità fu una frase di Krishnamurti che paragonava l’ashram a un lager.
Io non mi avvicino a certe tematiche per sopperire alle mancanze della mia vita e non cerco un pensiero al quale uniformarmi per denigrarne degli altri. Raccatto qualche visione d’insieme qua e là per prenderne ogni spunto che mi possa tornare utile nell’introspezione. Non m’interesso all’interpretazione del mondo in senso lato benché spesso l’autoanalisi la chiami in causa. Sono io la mia priorità, ma allo stesso tempo non posso inquadrarmi al di fuori del contesto sociale in cui vivo e se provassi a fare una cosa del genere mi limiterei a coltivare una nevrosi autoreferenziale. Faccio parte di questo mondo a tempo determinato e ormai, dopo quasi due decenni di adattamento, posso affermare di trovarmici bene.
Introspezione retrospettiva: terza parte
Pubblicato venerdì 27 Agosto 2010 alle 06:08 da FrancescoTra la prepubertà e la tarda adolescenza ho custodito regolarmente delle fantasie affettive in relazione all’altro sesso. A letto, prima di addormentarmi, assumevo spesso una posizione fetale e solevo cingere uno dei miei due cuscini per ricreare dei momenti d’intima dolcezza. Tutto ciò avveniva in modo spontaneo e mi faceva sentire bene, in particolare di domenica, quando alla possibilità di dormire più del solito si aggiungevano gli effetti di quella simulazione sentimentale. Non escludo che a quel tempo l’assenza di rapporti con le mie coetanee, oltre alla timidezza coeva, sia dipesa in minima parte anche dalla mia disponibilità a farmi bastare quelle fantasticherie notturne per soddisfare le mie esigenze emotive. Alla luce dei particolari anzidetti mi permetto di suppore che già allora in me fosse nascente l’attuale concezione dell’amore, seppur in una forma ancora grezza. Probabilmente le mie prime conclusioni sono state ideate attraverso gli sbagli altrui che ero abituato a ricavare in modo naturale dai discorsi degli adulti, durante quei pranzi e quelle cene in cui venivano consumati piatti abbondanti e sistemi nervosi. Senza saperlo io giocavo con le contraddizioni che udivo, giustapponendole e incastrandole come dei mattoncini colorati fino al punto di ottenere delle costruzioni rivelatrici.
Da adolescente non mi sono mai esposto ai pericoli dei rifiuti, però ho accolto le attenzioni di alcune ragazze curiose e sulla scorta di cotanta superficialità si sono originate delle infatuazioni platoniche piuttosto ridicole da cui ho comunque saputo trarre qualche insegnamento.
Ricordo una certa pudicizia nelle mie prime fantasie amorose che io faccio risalire all’età di dieci anni. Ricordo che allora l’idea di un bacio mi catapultava in un imbarazzo tremendo e quasi non riuscivo a concepirla. Provavo una sensazione analoga ogniqualvolta appoggiassi la mano destra sulla zona vuota di un banco scolastico: mi sembrava di mettere il palmo sulla parte superiore di una coscia. Non sono mai riuscito a risalire fino all’origine di questo turbamento, ma credo che abbia evidenziato una dissonanza tra la totale estraneità all’erotismo e le prime masturbazioni, in concomitanza delle quali è poi sparito del tutto.
La mia fantasia nell’arco di tempo in esame si è divisa tra la pornografia e il desiderio profondo di avere una relazione: in seguito questi livelli della mia immaginazione si sono sovrapposti per conformarsi all’idea idilliaca di un legame completo. Se in questa fase delicata del mio sviluppo io avessi avuto una relazione sentimentale forse la mia mente si sarebbe impigrita e avrebbe compromesso o almeno reso più difficoltoso il mio percorso introspettivo. Quest’ultimo dettaglio non è nuovo, però mi piace riproporlo di tanto in tanto poiché lo considero come l’aneddoto di qualcuno che abbia scampato un pericolo enorme.
Anche grazie a questo iter tortuoso sono giunto a un livello di autocoscienza che reputo buono. Il processo di cambiamento è stato così veloce in me che ha doppiato la vecchia identità, ma a uno sguardo estraneo potrebbe sembrare che quest’ultima sia ancora in testa, anche in senso letterale. Un mutamento graduale e costruito sarebbe stato possibile da parte mia, ma avrebbe snaturato completamente la mia personalità per adeguarla a maggiori occasioni sul piano delle relazioni umane. La mia introspezione ha escluso l’evenienza dell’anaffettività nel mio carattere e per me già questo particolare è un motivo di contentezza abnorme, ma forse se me lo facessi bastare mi ridurrei ad ammodernare l’errore che fu proprio della mia pubescenza. È un segno di salute psichica la mia voglia d’amare ed è un capolavoro dell’autoanalisi la mia capacità di non sentirmi frustrato né amareggiato per l’attuale impossibilità di farlo, ma su questo punto non intendo spendere altre parole poiché in più occasioni ho incensato giustamente il mio stato d’animo e, per quanto sia stupefacente, a ‘na certa pure io mi rompo i coglioni di elogiarlo.
Introspezione retrospettiva: seconda parte
Pubblicato mercoledì 25 Agosto 2010 alle 03:43 da FrancescoTra l’infanzia e l’adolescenza mi sono sentito sempre inadeguato al cospetto della vita. Credevo di non essere affatto in grado di piacere agli altri, perciò spesso tendevo a isolarmi in silenzio o assumevo dei comportamenti asociali, volgari, talvolta persino aggressivi. Mangiavo molti dolci per colmare i vuoti affettivi, ma ovviamente non me ne rendevo conto, con buona pace del povero cesso che per oltre una decade ha ospitato i miei tocchi di merda. All’origine del mio disagio penso che vi sia stato un concorso di cause. In primis, ricordo un episodio che mi segnò.
Quasi certamente avevo cinque anni quando una sera d’estate i figli dei vicini mi esclusero dal loro gruppo e mi lasciarono davanti alla porta chiusa di una casa in cui erano entrati prima di me per giocare insieme. Io non ebbi alcuna reazione particolare, ma scesi le scale e rincasai. Da piccolo ero tremendo e fastidioso, perciò non escludo che l’assenza di proteste da parte mia sia stata in realtà un’ammissione di colpa (anche solo inconscia) e dunque posso supporre che io abbia ritenuto (giustamente) d’essermi meritato quel trattamento.
In seguito stentai sempre di più a relazionarmi con gli altri perché temevo di rivivere lo stesso dispiacere. A quell’età non sapevo ancora scorgere né analizzare i movimenti del mio mondo interiore. Comunque l’episodio dell’esclusione mi espose ancor di più al clima familiare che era piuttosto teso, tanto che non c’era nulla che ricordasse anche solo per sbaglio il Mulino Bianco; manco i biscotti di quella marca arrivavano in tavola e difatti bruciavano prima in quell’atmosfera domestica, quasi come delle meteore ignifere. Il mio presunto padre era occupato con le amiche di mia madre e mia madre tra le sue priorità aveva l’onere di soffrirne. Mi ricordo ancora quando il mio presunto padre mi parcheggiava in sala giochi sotto l’egida del titolare (un suo amico) e se ne andava per qualche ora: io passavo i pomeriggi là, con i videogiochi, e mi divertivo.
Immagino che anche la mancanza di una figura paterna abbia contribuito a rafforzare in me una condotta erronea per tutta la fase del mio sviluppo, ma non posso certo negare quanto mi sia piaciuta quella libertà e probabilmente è stata più propedeutica di quanto avrebbe mai potuto esserlo una presenza soffocante.
È troppo facile accusare i propri genitori di essersi comportati male e io non mi avvalgo di una giustificazione del genere, altrimenti oggi, malgrado tutto, non sarei così radicalmente diverso da com’ero un tempo. Nessuno può imparare a crescere un figlio e la pedagogia non è una scienza esatta. Chi mi ha messo al mondo ha provato a tirarmi su, ma sotto molti aspetti ho dovuto rimediare io alle mancanze altrui. Comunque ho goduto anche di alcuni privilegi e ancor oggi devo molto a mia madre, perciò è giusto che io sottolinei anche questo particolare.
In fin dei conti non me la sono mai passata male e se pensassi il contrario allora dovrei proprio chiedermi come valutare le esperienze di quei miei coetanei che sono cresciuti nell’indigenza, tra storie di abusi e indifferenza. Certi figli tendono a fare i vittimisti per non prendersi alcuna responsabilità in merito ai loro demeriti, ma io non ho nulla da rimproverare a nessuno e sono contento di come mi sono corretto. Il mio carattere tra l’infanzia e l’adolescenza mi ha portato a non coltivare amicizie profonde né rapporti con l’altro sesso, infatti mi sono tagliato fuori da molte dinamiche sociali, ma questa mancanza, per quanto possa essere ritenuta gravosa, mi ha facilitato la vita. Oggi sono abbastanza maturo per intrattenere rapporti di ogni tipo e potrei persino avere una relazione, ma sono uno sconosciuto sereno e questo paradosso mi fa morire dalle risate. Va bene così.
Introspezione retrospettiva: prima parte
Pubblicato martedì 24 Agosto 2010 alle 04:14 da FrancescoNon ricordo esattamente quanti anni avessi il giorno in cui si verificò questo episodio, tuttavia frequentavo la scuola elementare e il mio rapporto con il buio notturno non era ancora sereno. Una mattina mi svegliai prima di mia madre e dopo averla guardata per un attimo mi diressi in cucina per prendere un coltello. Dopo qualche difficoltà dovuta all’altezza a cui erano riposte le posate, riuscii ad afferrarne una e tornai subito nella stanza. Mi fermai a più di mezzo metro dal letto di mia madre e stetti attento a non fare rumore. Probabilmente non trascorsero neanche trenta secondi prima che in me sopraggiungesse uno spavento enorme. Mi allontanai dalla camera e ritornai in cucina per mettere a posto il coltello, però durante l’azione non riuscii a liberarmi dalla paura che mi aveva assalito qualche secondo prima e gli effetti di quest’ultima echeggiarono per giorni nel mio cranietto ingenuo.
Una lettura superficiale di questo episodio potrebbe indurre qualcuno a credere erroneamente che io abbia provato a commettere un matricidio senza riuscirci, ma trovo che un’interpretazione del genere sia risibile. Dopo molti anni penso di essere giunto a una spiegazione plausibile per quella strana mattina. Quand’ero bambino temevo tremendamente di perdere mia madre poiché se lei fosse morta io sarei rimasto solo al mondo, perciò mi inquietava molto questa idea ricorrente che spesso mi tormentava prima d’addormentarmi.
Quella mattina cercai di simulare una situazione pericolosa per capire quali sarebbero state le mie reazioni a una morte prematura di mia madre. Lo spavento che mi colse subitamente evidenziò un attaccamento forte e un timore altrettanto grande. Il mio stazionamento con un coltello in mano davanti a lei dormiente riprodusse per un breve momento la possibilità della sua scomparsa e non necessariamente per mano di un’altra persona, ma anche a causa di una malattia o di un incidente. Non ho mai avuto rancori forti con la mia genitrice, neanche durante l’adolescenza, quando cominciarono a crescere dei conflitti che poi svanirono del tutto un po’ di tempo dopo, quando ormai io avevo già passato la maggiore età. Ho vinto da pochi anni la paura di affrontare ed elaborare la perdita di mia madre, come del resto, sempre da parte mia, sono piuttosto recenti i superamenti di altri timori che alcune vite ospitano per tutta loro durata. Voglio bene alla mia mamma, specialmente ora che il cordone ombelicale non può più essere utilizzato sul patibolo.
Ho ritrovato alcuni appunti di sette anni fa, precedenti persino all’apertura di questo schedario introspettivo. Il mio stile stentava a trovare la propria identità e anch’io ero impegnato in una ricerca analoga. All’epoca non mi sentivo ancora a mio agio con la solitudine e attraverso una scrittura approssimativa tentavo di esprimere il mio malessere con un sussiego che oggi trovo tremendamente ilare. I falsi problemi di un tempo adesso mi sembrano sciocchezze, tutt’al più eleggibili come oggetti di scherno per dileggiare il tono profondo che la mia personalità passata cercava insistentemente d’instillarsi con lambiccamenti mediocri e inconcludenti.
Se io fossi in grado di tornare indietro nel tempo, probabilmente prenderei a schiaffi il mio clone diciannovenne e gli fregherei pure i risparmi: puah, figlio di puttana. Per fortuna ho aggiustato il tiro e non mi sono intestardito a sparare cazzate, altrimenti starei ancora ad adulare qualche forma di vittimismo mascherato. Sono umano, almeno per il momento, perciò accetto gli errori del passato e mi godo le conquiste del presente. Non mi piace scordare gli stronzi che si sono avvicendati in me prima di me e ci tengo a rammentare la loro stupidità per evitare di riportarla in auge senza volerlo.
Ogni tanto in alcune persone, più giovani o più vecchie, rivedo l’ottusità e la superficialità che ho avuto modo di esperire a spese del mio tempo e ogni volta, dinanzi a tali apparizioni, mi sento molto fortunato. La cretineria per me è stata una grande scuola, ma non provo nostalgia e non intendo frequentarla nuovamente: al massimo posso accettare qualche corso d’aggiornamento, ma nulla di più, santi numi! Credo che l’imperfezione umana si presti sempre a qualche limatura e di conseguenza non mi considero a un tiro di schioppo dalla perfezione, ma almeno non sento il fiato sul collo di una parte di me che di me aveva soltanto le sembianze. Ancora una volta mi vedo costretto ad allegare una citazione di Franco Battiato e Manlio Sgalambro: “Quando non coincide più l’immagine che hai di te con quello che realmente sei, incominci a detestare i processi meccanici e i tuoi comportamenti, e poi le pene che sorpassano la gioia di vivere, coi dispiaceri che ci porta l’esistente, ti viene voglia di cercare spazi sconosciuti per allenare la tua mente a nuovi stati di coscienza”. Accidenti, tutto quadra e non ho neanche bisogno di misurare i lati per esserne sicuro.
Il mese scorso ho acquistato uno smartphone per rendermi reperibile e anche per avere in un solo oggetto tutte le funzioni di cui solitamente abbisogno. Seguo la tecnologia e riesco sempre ad avvalermene per semplificarmi la vita, ma non rincorro mai le ultime novità a meno che non mi occorrano e soprattutto mi tengo alla larga dai quei prodotti esosi che fanno tendenza.
Per parecchio tempo ho potuto fare a meno di un telefono cellulare e adesso che mio malgrado ho dovuto rimediarne uno, l’uso che ne faccio per la comunicazione è piuttosto sporadico benché risulti quasi indispensabile. Le funzioni che io adopero più spesso sono la riproduzione musicale e il navigatore satellitare. Proprio il GPS, interfacciato con Smartrunner, mi ha svelato il chilometraggio esatto del mio percorso podistico e quest’ultimo si è rivelato maggiore delle mie misurazioni approssimative tramite Gmaps Pedometer.
Insomma, per parecchio tempo ho percorso ventiquattro chilometri e sessanta metri credendo che fossero poco più di ventuno. Ovviamente questa scoperta mi ha reso felice ed è andata ad assommarsi al mio nuovo record personale sul percorso suddetto: un’ora, trentasei minuti e trentadue secondi. Alla luce dei nuovi dati, il mio tempo migliore si traduce in una velocità media di quasi quindici chilometri orari, con un passo al chilometro di quattro minuti e un secondo.
In altre parole vado più veloce di quanto pensassi e con la mia soglia anaerobica potrei puntare a concludere la mia prima maratona sotto le tre ore e mezzo. Al massimo ho percorso trentasei chilometri, ma con velocità più modeste e una prestanza fisica che al tempo di questo primato personale era inferiore a quella attuale. Dovrei iscrivermi a una maratona per capire le mie reali capacità, tuttavia sempre inadeguate per qualsiasi velleità agonistica. Forse potrei fare in modo che il mio prossimo viaggio coincida con la mia prima maratona. Per me si tratta d’una questione personale, una sfida contro me stesso in cui il benessere è comunque la priorità. La corsa mi ha dato e continua a darmi molto sotto l’aspetto emotivo e paradossalmente, ora che corro un po’ di meno, le mie prestazioni sono migliorate. Non posso fare a meno di ritenere che un minore stress legato alla corsa e un maggiore allenamento pesistico stiano contribuendo ad aumentare la mia efficienza podistica. Prima o poi le mie prestazioni caleranno e forse un giorno non potrò più correre, ma non ho intenzione di ritirarmi presto da questa disciplina solitaria che mi vessa e mi accudisce senza pretendere più di quanto il mio sistema cardiocircolatorio le possa offrire.
Nel cuore della notte pulsano visioni verosimili
Pubblicato mercoledì 11 Agosto 2010 alle 03:53 da FrancescoMi diletto a vivere senza badare troppo alle fortune alterne. Nessuno dietro di me, nessuno davanti a me, né nello spazio né nel tempo. Attraverso tundre desolate e passaggi a livello ormai in disuso. Secondo più d’una cassandra io cadrò sotto il peso della mia esistenza, ma non temo queste profezie infauste e continuo a solcare i miei giorni come se toccasse al futuro l’ingrato compito d’inseguirmi. Non sento alcuna pressione e mastico pezzi di liquirizia per alzare un po’ quella sanguigna. I miei oracoli hanno code lunghe e miagolate rivelatrici. Alle occasioni perse non nego mai una degna sepoltura, però non ne commemoro la dipartita. Croci marce e vermi famelici vegliano al posto mio gli eventi defunti. L’autunno dista più di trenta giorni e spero che non anticipi la sua venuta, ma nei mesi venturi il saluto dell’estate non farà sorgere in me una nostalgia stagionale e probabilmente neanche un’influenza accostabile allo stesso aggettivo troverà posto nel mio organismo.
Vuoti a rendere, questi sono i contenuti che adopero per versare un po’ di lessico. Non buco lo schermo né le mie viene, non trafiggo i cuori e ultimamente neanche la carne di maiale, non sono tagliente e preferisco tagliare corto. Giochi di parole dalla fattura discutibile, ecco le scorie che lascio nottetempo su questo appunto. Come si modella il tempo? Quale forma preferire? Giorni e notti da bibliotecario o mattine e pomeriggi alla stregua di un pugile? Il desiderio fomenta inclinazioni diametralmente opposte. Forse la fame di sapere e quella di potere hanno una radice comune, ma si manifestano in modi diversi. Un libro può essere comprato e consumato come una borsa di Gucci, il lettore ne può indossare il contenuto sopra la propria personalità come un abito di Saint Laurent e può persino schiacciarci l’ignoranza altrui come se calzasse degli stivali di Luis Vuitton: la cultura è fashion; un motivo in più per evitarla. L’uomo selvaggio di Rousseau, poi così selvaggio non era. Non sarebbe sufficiente la fusione di tutte le riserve auree del mondo per tornare all’età dell’oro, ammesso che un periodo del genere abbia accompagnato un po’ la storia dell’uomo.
Ovunque mi pare d’intravedere individui che non amino sé stessi. Odo e leggo critiche ripetitive verso la società civile da cui certuni cercano di differenziarsi tramite l’uso della parola e solo di questo, ma tali acuti osservatori mi paiono dei poveri imbecilli allo sbaraglio, inetti alla ricerca di attenzioni che non sanno procurarsi in un modo meno subdolo. Ammiro chiunque sia votato al miglioramento di sé, ancor più di chiunque si dedichi alla filantropia e non escludo affatto che le due pratiche possano viaggiare di pari passo. Ho l’impressione che qualcuno reputi un’azione indegna d’essere compiuta se quest’ultima non presenti alcuna possibilità di raggiungere la considerazione altrui. Io nego sempre l’idea che la mia persona possa risultare gradevole o addirittura interessante benché la realtà non sia così netta, ma questo approccio mi permette più facilmente di non forzare né viziare (perlomeno coscientemente) i miei comportamenti affinché combacino con la simpatia degli estranei o dei conoscenti. Cerco di pormi al di là delle formalità e talvolta mi vedo un po’ irruento, volgare, inopportuno, irriverente, insolente, troppo distaccato o eccessivamente aperto, ma credo che questa maleducazione apparente sia un prezzo ragionevole da pagare per salvare il salvabile in termini di autenticità. D’altronde sto attento anche alla attenzioni che riservo ai miei gesti e cerco d’evitare che s’incanalino in automatismi difensivi. Voglio stare tra due forze contrarie, senza (di)pendere troppo da una parte o dall’altra.
Credo che la suggestione sia la più grande nemica di un comportamento sincero e la trovo un’avversaria abile poiché la sua forma cambia di persona in persona, di circostanza in circostanza. Non credo che la confidenza riduca l’incidenza dei gesti manierati, anzi, suppongo che in alcuni casi possa provocarne una cristallizzazione e difatti mi è capitato più d’una volta di percepire dei discorsi artefatti in un gruppo apparentemente affiatato di persone. Ovviare a tutto questo comporta la necessità di mantenere una certa soglia di attenzione e talvolta, quando la stanchezza è troppa, mi permetto di delegare la comunicazione a delle reazioni quasi meccaniche di cui le frasi di circostanza sono un ottimo esempio.
Su queste pagine come nel mio secondo scritto, a ogni errore cerco di presentare una bella correzione e non nego affatto che anche a me piacerebbe essere uno sbaglio da sistemare. La solitudine notturna ha un sapore particolare, molto dolce, e nel mio caso presenta di rado un retrogusto amaro. Mi piace ascoltare grandi dischi nelle ore piccole mentre scrivo di me in mia presenza. Faccio compagnia alle parole, specialmente a quelle più brevi che subiscono gravi traumi a seguito degli utilizzi impropri da parte di terzi. Il futuro non lo progetto né lo rigetto. Qualcuno crede che il mio arsenale emotivo non esista, un po’ come quello iracheno che secondo l’opinione pretestuosa di taluni avrebbe dovuto contenere armi di distruzione di massa, ma io custodisco davvero una santabarbara di affettività inespressa da cui, all’uopo, sarò pronto ad attingere. Di sicuro i parallelismi tra la terminologia militare e quella emotiva non contribuiscono a dare di me un’immagine meno fredda, ma non ho i mezzi né la necessità di procurarmi un ufficio stampa. Per qualcuno l’istinto è una bestia feroce, nella vita di qualcun altro invece svolge le funzioni di un cane per ciechi, ma per me è soltanto un ermellino simpatico che non intendo consegnare alla prima pellicceria.
Ho raggranellato qualche palanca e dunque posso già iniziare a muovere l’indice destro sul planisfero per scegliere la destinazione del mio prossimo viaggio. Credevo che l’anno venturo non sarei potuto partire per questioni monetarie, ma a quanto pare le coincidenze mi vogliono altrove, almeno per un mesetto. Ho già in mente la mia prossima destinazione, ma resto aperto a qualsiasi proposta estemporanea dell’intelletto. Potrei anche optare per una piccola impresa in solitaria o con qualcun altro, ma non ho ancora le idee chiare. Se dovessi capitare in una nazione peninsulare mi piacerebbe percorrere almeno una sua costa in bicicletta.