Ieri mi sono donato nuovamente al mare dell’Argentario per tutto il pomeriggio. È passato quasi un lustro dal giorno in cui mi risolsi ad attraversare in solitaria un breve tratto di mare per sconfiggere la paura dell’acqua alta che avevo ereditato dalla mia mamma. Ricordo ancora quella mattina di quattro anni fa e la grande liberazione che raccolsi nella sua ora più calda. Quella nuotata catartica fu una delle prime conseguenze pratiche della mia introspezione.
Quando sono in acqua mi sento avvolto da una forma particolare di dolcezza e subentra in me una vivacità quasi infantile benché i movimenti dei mie arti inferiori e le mie bracciate non siano affatto scomposti. Di tanto in tanto, con un’immersione rapida, mi trovo a provocare una diaspora subacquea in qualche banco di pesci che abbia avuto la sventura di capitare nel mio raggio visivo. Altre volte eseguo una compensazione approssimativa per lambire il fondale e farmi accarezzare dalle correnti fredde, ma alla fine riemergo sempre e una volta in superficie espello con decisione l’acqua dal boccaglio. Per me non è difficile trovare scogli appartati da cui cominciare le mie sessioni di snorkeling e mi diverto a raggiungere questi punti un po’ scomodi. La costa frastagliata dell’Argentario combacia perfettamente con la forma regolare del mio stato d’animo. A me non piace abbronzarmi e cerco di salvaguardare la mia cute, ma incontro sempre qualche difficoltà a mettermi la crema protettiva e puntualmente per spalmarla bene dietro la schiena devo improvvisarmi contorsionista. Di solito una doccia serale conclude il mio contatto con l’acqua e mi fa apprezzare quest’ultima al di là della sua indispensabilità.
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