Recentemente ho finito di leggere “Un apolide metafisico” di Emil Cioran. Conoscevo già da diversi anni lo scrittore rumeno e avevo letto alcuni dei suoi aforismi, ma non mi ero mai deciso a prendere in mano una delle sue opere. Il libro in questione è una raccolta di interviste illuminanti che mi ha esaltato. Condivido una parte del pensiero di Cioran, tuttavia la mia visione delle cose è molto differente. Non apprezzo il modo in cui egli abbraccia il fatalismo, ma adoro la genialità e l’irriverenza con cui lo presenta. Mi piacciono le parole che spende sulla noia e in particolare quando affranca questo sentimento da qualsiasi legame con l’ozio, ma preferisco citare il passaggio di una sua intervista per cristallizzare questo punto: “Non è la noia che si può combattere con le distrazioni, la conversazione o i piaceri, è una noia che si potrebbe definire fondamentale; e che consiste in questo: più o meno bruscamente, a casa propria o in casa d’altri, o davanti a un bellissimo paesaggio, tutto si svuota di contenuto o di senso. Il vuoto è in noi e fuori di noi. L’intero universo è annullato. E niente più ci interessa, niente merita la nostra attenzione. La noia è una vertigine, ma una vertigine tranquilla, monotona; è la rivelazione della futilità universale, è la certezza, spinta fino allo stupore o fino alla chiaroveggenza suprema, che non si può, non si deve fare niente né in questo mondo né in quell’altro, non esiste al mondo niente che possa servirci o soddisfarci. A causa di questa esperienza – non costante ma ricorrente, dato che la noia viene per accessi, ma dura molto più a lungo di una febbre – non ho mai potuto fare niente di serio nella vita. Per la verità, ho vissuto intensamente, ma senza mai potermi integrare all’esistenza. La mia marginalità non è fortuita, ma essenziale. Se Dio si annoiasse, rimarrebbe pur sempre Dio, un Dio, però, marginale”. Penso di conoscere la noia di cui parla Cioran e credo di averla vissuta, ma nella sua descrizione ravviso un’insofferenza che ormai non avverto più da molti anni. Io vivo il mio vuoto come una manifestazione sublime della vita e non dipingo l’esistenza con tonalità oscure perché la considero un’evoluzione libera e imprevedibile come descritta da Henri Bergson. Approfitto di questo argomento per lasciare un ulteriore appunto che non si discosta troppo da quanto ho scritto e citato finora. Mi rifiuto di affidare me stesso agli esiti delle mie imprese. Intendo dire che non sono disposto a mutare il mio umore in base ai successi o alle disfatte e per questo motivo ho fatto molti sforzi per raggiungere un equilibrio che sia a monte di tutto questo. Certo, verso anch’io i miei tributi emotivi, ma sono congrui alle circostanze e non mi travolgono né positivamente né negativamente. Prima di concludere voglio fare un passo indietro. I cardini di Cioran non sono molti e lui stesso afferma in un’intervista contenuta in “Un apolide metafisico” che il suo primo libro contiene già molto di quello che si trova nelle sue opere seguenti, tuttavia è difficile riassumere questa grande mente del novecento.
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