Un uomo giace sopra una barella traballante e si conquista un posto in prima fila per guardare la replica veloce della sua vita. Le immagini dei suoi anni si avvicendano in una successione rapida, ma egli riesce a comprenderle tutte più di quanto sia riuscito a fare nelle lunghe riflessioni della sua esistenza. L’uomo è in procinto di morire mentre i sanitari che lo circondano tentano in tutti i modi di strapparlo alla morte per ottemperare al giuramento di Ippocrate e per continuare a vivere senza il peso di un’accusa di negligenza. Alcuni viaggi appaiono interminabili, ma è piuttosto difficile trovarne uno che sembri più esteso di quello che parte da una corsia di emergenza e si conclude in una sala di rianimazione. Il suono di una sirena, la luce psichedelica di un lampeggiante e le voci concitate dei barellieri accompagnano l’uomo verso l’ultimo respiro come una folla che inciti un ciclista a pochi metri dal traguardo. Il tempo che intercorre tra la morte di un uomo e la dimenticanza collettiva di quest’ultimo è un colpo di spugna sopra un rubinetto che perde. La ritualità che segue la morte assomiglia a una festa di carnevale nella quale le maschere luttuose si prostrano davanti all’organizzatore esanime e lo incensano con lodi forzate.
Ieri sera ho parlato al telefono con una ragazza emiliana di quarant’anni e ho ricevuto una proposta di lavoro piuttosto interessante. Il suo modo di parlare e il suo lessico mi hanno ricordato L. tanto che alla fine le ho chiesto: “Sei mai stata a Viserba?”. Lei ha riso e mi ha risposto: “Sì, ci andavo da piccola, al mare”. A parte l’amarcord (parola guarda caso romagnola) non sono ancora certo di ottenere questo lavoro poiché prima devo sottopormi a un breve periodo di formazione e non ho la certezza di superarlo. L’attività in questione è retribuita bene, ma richiede pazienza e dedizione per dei periodi che possono variare da alcune settimane a un paio di mesi. Mi auguro che le mia conoscenza spartana dell’informatica sia in grado di aprirmi le porte di questa avventura. Ormai ho troppa esperienza per temere i fallimenti, perciò non mi preoccupo della possibilità di non essere all’altezza della situazione. Non ho bisogno di denaro, ma vorrei ottenere questo lavoro per fare qualcosa di diverso. Al momento non ho intenzione di scendere nei dettagli dell’impiego che mi è stato proposto, però mi auguro di trattare nuovamente questo argomento con l’entusiasmo dell’assunzione. Tra qualche settimana saprò se dovrò prepararmi a partire o se potrò continuare ad adempiere alle mie azioni quotidiane, ma in ogni caso mi sentirò bene e suppongo che questa sia la cosa più importante.
Adopero l’indifferenza per schermirmi dagli scherni della spiritualità e mostro la mia indole materialistica per declinare ogni invito alle ricerche ultraterrene, ma non mi affido al nichilismo né ad altre scuole di pensiero. Apprezzo il vuoto e proteggo la sua vacuità dalle consolazioni nocive che galleggiano nel mondo in cui vivo, ma per agire in questo modo sono costretto a rimandare a tempo indeterminato certe acrobazie dei sensi. Identifico il vuoto con la mancanza di qualcosa e credo che sotto i suoi strati di sconforto si trovi uno strumento ostico per rinvigorire la personalità. Incontro qualche difficoltà semantica nella ricerca delle parole adatte per appuntare con precisione i vapori di questo geyser introspettivo e mi accingo a esemplificare brevemente quanto ho scritto in precedenza. Quando un individuo si accorge del vuoto che lo avvolge e guarda al suo interno egli può arrestare il suo sguardo davanti agli strati di sconforto e consumarsi in un vittimismo tanto deleterio quanto inutile, ma qualora il suo occhio riesca a penetrare la vacuità può cominciare a studiare i meccanismi di ciò che ancora non gli appartiene. Ad esempio quando una persona avverte la mancanza di amore può cristallizzarsi nella malinconia e nella nostalgia o può utilizzare la parte più profonda della sua mancanza (lo strumento ostico) per affinare la sua capacità di amare e credo che questa scelta avvenga in base a un’intuizione indipendente dal livello di erudizione. Suppongo che la felicità e la visione del mondo che essa porta con sé lambiscano la traiettoria della cultura, ma sono portato a credere che quest’ultima non sia fondamentale per raggiungere uno stato d’animo ben più pregiato di qualsiasi nozione del cazzo.
Ancora una volta mi sento pervaso da un senso di benessere e devo la sua presenza sottocutanea all’insistenza della mia pazienza. Mi sembra che non manchi nulla nella mia vita, ma credo che io debba aggiungerci ancora qualcosa di fondamentale senza cadere nell’opulenza dei desideri. Amo il modo in cui contribuisco alla modellazione del mio corpo e della mia forma mentis. Evito che il mio spazio venga oberato dalla tristezza, ma accetto piccole quantità di quest’ultima quando lo reputo necessario. Mi sembra che i pensieri mesti rallentino il tempo e ne inficino la qualità. Talvolta ho la sensazione che la mia politica di tolleranza zero nei confronti del passato sfiori l’insensibilità, ma credo che si tratti del prezzo da pagare per la salvaguardia della propria evoluzione. È facile atrofizzare le potenzialità psicofisiche in un tassello polveroso del tempo e molte situazioni disdicevoli invitano a farlo, ma trovo che sia tremendamente stupido continuare a dimenarsi su un punto fermo. Provo una forte repulsione verso il languore malinconico che avviluppa perpetuamente certuni e disprezzo tutte le giustificazioni vittimistiche con cui esso viene addobbato. Non sono nella posizione di giudicare i miei simili e qualcosa del genere non figura neanche nelle mie intenzioni, ma prendo in esame i comportamenti di alcune persone per evitare di incorrere nei loro errori. La storia e la società offrono molti esempi da cui attingere nozioni per ottenere una visione migliore della propria vita, ma certe tendenze agiografiche e una forte inclinazione all’indifferenza possono impedire di apprendere qualcosa dalle cazzate che sono già state commesse da altri individui. Sono state già vissute molte vite e la ripetizione degli errori individuali ha un aspetto tragicomico.
Nel corso degli anni mi sono lasciato alle spalle un novero consistente di persone e non ho mai riallacciato i rapporti con loro. Non concedo molto valore ai legami di sangue e non riconosco alcun diritto affettivo nei confronti di chi mi ha messo al mondo, ma nutro del bene per mia madre e non escludo che una parte di esso abbia radici edipiche. Preferisco i rapporti che partono da zero, prediligo le relazioni che fioriscono sopra un pianeta emotivo senza passato e nonostante io non abbia mai avuto nulla di simile continuo a ritenere che tutto il resto del campionario sociale sia piuttosto marginale. Non penso di conoscermi completamente, ma credo di sapere abbastanza di me per affermare che nel mio status di figlio l’amore per una mia compagna prevarrebbe di gran lunga su quello per mia madre e parimenti nello status di padre l’amore per la mia prole sarebbe nettamente minore rispetto a quello che proverei per la loro madre. I miei sentimenti hanno una matrice egoistica poiché sgorgano dal mio Ego e sono contento che non fuoriescano da qualche sorgente artificiale della mia interiorità, ma per adesso non mi resta che apprezzarne la bellezza cristallina mentre si snodano lungo il tempo alla ricerca di un estuario. Considero deceduta ogni persona con cui ho rotto i ponti e trovo che sia strano accettare la morte di qualcuno che è ancora vivo, ma questo è il mio modus operandi. Non accetto che la sterilità del passato occupi lo spazio delle fioriture presenti e future nonostante il mio autunno perduri da oltre vent’anni. Le foglie ingiallite hanno un fascino particolare.
Non ti curar di loro, ma guarda e passa
Pubblicato giovedì 15 Novembre 2007 alle 13:19 da FrancescoIl titolo di questo breve scritto è una citazione dantesca piuttosto celebre e penso che sia perfetta per introdurre un mio punto di vista. Internet è uno strumento e come tale può essere usato in molte maniere: per quanto mi riguarda uso questa rete per acculturarmi e per tracciare le mie esperienze. Alcuni individui usano Internet e in particolare il web per sfogarsi poiché possono avvalersi di un lieve anonimato. Gli internauti in questione possono essere definiti con un termine piuttosto inflazionato su Usenet, ovvero “troll” ma talvolta alcune persone assumono questo status virtuale senza esserne consapevoli. Il mio blog ha circa cinque visitatori abituali più altri che giungono su queste pagine attraverso i motori di ricerca o per altre vie. Due dei visitatori abituali di questo angolo di Internet hanno delle personalità piuttosto disturbate e cercano di raccontarsi nei commenti dei miei scritti, ma spesso incorrono nella mia censura. Non capisco per quale motivo due persone tra i trenta e i quarant’anni coltivino un interesse ossessivo per i miei appunti virtuali. I due soggetti in questione accedono a queste pagine molte volte nell’arco di un giorno e la frequenza delle loro visite mi lascia perplesso. I ruoli non potrebbero mai invertirsi poiché io non mi curerei mai di un loro blog, perciò è evidente come i due lettori che ho preso in esame finora siano delle entità passive che tentano di affermare una piccola parte del loro Ego tra queste righe. Uno dei due è veneto, l’altro invece è toscano ed entrambi sono accomunati da una forte ignoranza. Il secondo ha contestato che io potessi percorrere centoquarantadue chilometri in bicicletta e vangare un piccolo orto dopo undici ore di riposo, inoltre per avallare la sua affermazione ha sostenuto che nemmeno i campioni del ciclismo potrebbero fare una cosa simile. Evidentemente costui non ha trattato l’argomento con cognizione di causa e forse avrebbe dovuto muovere il culo e informarsi prima di inoltrarsi in campi a lui sconosciuti. Un tempo il Giro d’Italia e il Tour De France presentavano tappe di trecento chilometri e sia le biciclette che le strade non erano certo quelle di oggi. Questo cenno storico dimostra la pochezza del commentatore che ho citato poc’anzi. Provo un disprezzo profondo per la tracotanza con cui l’ignoranza viene spacciata per esperienza, ma fortunatamente mi occupo con una certa sicurezza soltanto delle cose che conosco e affronto tutte le altre con la dovuta umiltà per evitare di errare eccessivamente. Non mi disturba che qualcuno sindachi le mie fatiche o qualsiasi altro aspetto della mia vita, ma penso che un certo modo di porsi meriti una risposta dettagliata di questo tipo e ritengo che quanto ho scritto finora possa servirmi in futuro per replicare celermente a determinate illazioni. Internet rispecchia la realtà in tutti i suoi aspetti, dalla solidarietà alla perversione, dalla comunanza dell’informazione alla delinquenza, dall’eleganza alla trivialità, ma la realtà resta completamente diversa e certe cose che compaiono su Internet non trovano spazio nelle bocche dei loro autori perché il rapporto vis-à-vis inibisce i deboli: personalmente non ho mai lasciato nulla su questa rete che non fossi in grado di replicare in una conversazione quotidiana con una persona in carne e ossa.
Ieri pomeriggio ho visto una volante vicino a casa mia e ho sentito il bisogno di fotografarla. Qualche anno fa i carabinieri di tanto in tanto mi fermavano per dei brevi controlli perché deambulavo di notte per le strade del mio comune con un aspetto inquietante, infatti avevo i capelli lunghi e una barba molto folta. Ogni volta che vedo una vettura delle forze dell’ordine mi viene in mente la banda dell’Uno Bianca che era composta prevalentemente da poliziotti: credo che in me abbia luogo questa associazione perché da bambino ho sentito parlare molto delle azioni efferate dei fratelli Savi e dei loro compari. Quando avevo tredici anni trascorrevo le notti estive a guardare New York Police Department e Hill Street Blues, inoltre impugnavo spesso delle pistole di plastica e mi immedesimavo nel ruolo del poliziotto cattivo e in particolare in quello di Andy Sipowicz (interpretato da Dennis Frenz) che è stato un mio teen idol. Non ho mai pensato seriamente di indossare una divisa e, come ho già scritto in passato, sarei disposto soltanto a diventare un legionario se la ferma minima della Legione Straniera non fosse quinquennale, ma questa è un’altra storia senza inizio e probabilmente resterà tale.
Domenica ho atteso che il cielo appendesse i suoi chiarori aurorali prima di montare sulla mia bicicletta per dirigermi alla volta dei colori senesi. Mi sono armato di pazienza, ho fatto il pieno di determinazione e infine mi sono messo uno zaino sulle spalle per avere a portata di mano cibo e vestiario. All’inizio ho pedalato lentamente e ho attraversato un pezzo dell’Aurelia fino a quando non sono giunto alla deviazione nei pressi de “La Parrina”. Mi sono lasciato alle spalle Magliano, poi Pereta e Scansano: mi ero già avventurato in queste luoghi poiché in passato ho affrontato per due volte la Scansanese da Grosseto a Orbetello. Dopo Scansano ho proseguito verso Roccalbegna e prima di attraversarla ho effettuato una delle quattro soste con cui ho gestito la fatica. Mi sono fermato un quarto d’ora e ho mangiato su esplicita richiesta del mio stomaco: biscotti, marmellata e un succo di frutta. Sono ripartito un po’ infreddolito, ma ho impiegato poco per riscaldarmi nuovamente. Ho affrontato parecchie salite, ma per fortuna qualche discesa occasionale ha addolcito il mio percorso. Gli scenari che ho visto sono di una bellezza inesplicabile, perciò non intendo spendere troppe parole sull’incanto novembrino che avvolge l’entroterra toscano. All’altezza di Arcidosso ho iniziato ad accusare la fatica e ho cercato di non pensare per pedalare meccanicamente. Nel corso di questi centoquarantadue chilometri ho avuto la dimostrazione che l’affaticamento parte dalla mente, ma se quest’ultima può essere chetata allora il fisico è in grado di espandere la sua capacità di sopportare gli sforzi. Durante questa avventura ho chiesto qualche indicazione a dei passanti solitari e nella loro voce ho captato il tono della genuinità che si sviluppa soltanto quando si incrociano certi fattori ambientali. Dopo Arcidosso ho proseguito per Castel Del Piano e poi per Vivo D’Orcia prima di immettermi sulla Cassia. Ho seguito la strada che porta a Chianciano e poi ho percorso un breve tratto sterrato prima di entrare a Montepulciano, ma alla fine sono arrivato alla mia ultima destinazione: Gracciano. Ho concluso il mio viaggio alle quindici e quarantasei. Ho pedalato otto ore, ho effettuato quattro soste per un totale di sessanta minuti (arrotondamento per eccesso) e ho percorso centoquarantadue chilometri tra la provincia di Grosseto e quella di Siena. Sono soddisfatto di me stesso e non intendo spingermi oltre. A Gracciano ho trovato ospitalità da un’amica di mia madre e l’indomani sono tornato a Orbetello in auto con la mia genitrice, ma prima di partire ho trovato persino il tempo di vangare un piccolo orto e di sistemare un computer portatile come pagamento scherzoso per il vitto e l’alloggio che ho ricevuto. Sono vivo nel senso più inscrutabile del termine e il mio tragitto estenuante mi ha rinvigorito.
Il viaggio odierno della mia entità psicofisica
Pubblicato domenica 11 Novembre 2007 alle 04:00 da FrancescoMancano tre ore alla mia partenza e questa volta sono in procinto di dirigermi verso il cuore della Toscana. Ho intenzione di andare al di là di Pitigliano e per questo motivo impiegherò almeno un paio di giorni per raggiungere la mia meta e tornare casa. Sto per affrontare il più grande sforzo fisico della mia vita e mi sento come un soldato in trincea durante la vigilia di una grande offensiva nemica. Qualora dovessi riuscire in questa impresa probabilmente finirò di mettermi alla prova. I chilometri che mi attendono non si possono percorrere soltanto con un fisico allenato e per fortuna sono preparato anche mentalmente per compiere la fatica di quest’oggi. Quando metto alla prova le mie capacità psicofisiche mi sento parte della natura e attualmente questi eventi rappresentano l’unico modo che ho per amare in senso lato. Credo che la fatica salutare e tenace acuisca la sensibilità e ritengo che di riflesso ingigantisca la capacità di amare. Lo sforzo fisico non è soltanto un vezzo dei salutisti né la prassi di un atleta, ma è un modo per debellare la miopia dell’Ego. Sono un corpo celeste che brucia in un microcosmo situato sulla Terra e continuerò ad avvampare fino a quando non mi trasformerò in una nana bianca. Anche se tra qualche ora dovessi fallire nel mio proposito queste parole manterranno la loro valenza. Le prime luci del giorno si avvicinano ed è meglio che io mi prepari a cavalcarle.
La mia routine è costruttiva e procede senza impedimenti. Ogni tanto scambio qualche parola trascurabile con un interlocutore casuale, ma di rado converso seriamente con qualcuno. Non mi interessano molto le opinioni, ma apprezzo alcuni modi di esprimerle. Vivo con calma e paziento senza un fine. Ignoro volontariamente certi rumori e tra questi annovero anche delle voci umane. Rinuncio serenamente a ogni offerta deleteria e non mi preoccupo del vuoto che impera all’altezza del mio cerebro. Talvolta mi siedo sul divano tra due diavoli e guardo assieme a loro le tragedie dei loro subalterni. Cambiano i modi di dire, mutano le stagioni, si alternano le mode e gli assassini in voga. I fatti di cronaca nera illuminano gli aspetti più torbidi dell’essere umano e le macchie di sangue mettono in risalto l’efferatezza delle violenze più eclatanti. Un clima di tensione alza l’audience e distribuisce a ogni telespettatore affabile un senso profondo di partecipazione mediatica. Non applaudo più alla ricerca continua e forzata della teatralità, ma tento di concentrare tutta la mia deconcentrazione in una dormita salutare. Sulle mie espressioni facciali può sembrare che si trovi l’ombra di una depressione incipiente, ma questa impressione è errata poiché i miei tratti somatici riflettono solo il desiderio di un continuo miglioramento individuale. Lavoro sul materiale che ho a disposizione e per adesso ho soltanto me stesso.