Ieri notte ho visto il primo film della trilogia dei colori di Krzysztof Kie?lowski e sono rimasto piacevolmente colpito dalla sua portata drammatica. La protagonista è una donna che sopravvive a un incidente stradale nel quale muoiono suo marito e sua figlia. L’eterogeneità delle riprese sottolinea la complessità drammatica della storia e contribuisce a delineare la crisi esistenziale della protagonista. Ho apprezzato molto le scene statiche e l’insistenza della regia su alcuni dettagli che insieme a una serie di dialoghi brillanti mettono in luce il rapido avvicendamento delle emozioni contrastanti della vedova trentenne. Comportamenti isterici e autolesionisti, riflessioni e fobie colmano buona parte delle sequenze, ma c’è anche spazio per un po’ di dolcezza. Il marito della protagonista era un compositore di fama internazionale e una sua opera incompiuta ricorre più volte nel frequente simbolismo che è incentrato sul concetto della perdita. Trovo che questo film a causa della sua forte componente musicale sia una sinfonia del dolore in una quotidianità verosimile che ai miei occhi appare convincente e coinvolgente. Non avevo mai assistito a una rappresentazione della sofferenza umana così viscerale come quella che è contenuta in “Tre Colori: Film Blu” la cui visione mi ha iniettato una tristezza autentica. Non sono un cineasta né un cinefilo, ma la recitazione di Juliette Binoche ha coinvolto il mio occhio spartano dall’inizio alla fine e ho trovato perfetto l’equilibrio tra la sua sensualità e l’utilizzo centellinato di quest’ultima con il tema dell’opera.
Credo che le conquiste della propria disciplina non siano sempre tangibili e penso che talvolta sia difficile fruirne pienamente, ma non conosco un’altra strada percorribile per aggirare le scorciatoie che portano alle forme più abominevoli del degrado umano. Sembra che la vita sfugga di mano quando la staticità degli eventi si prolunga oltre la propria soglia di sopportazione e non biasimo chi utilizza soluzioni istantanee per allentare il timore che suscita l’apatia dell’esistenza, ma io preferisco affrontare una stasi longeva piuttosto che ignorarla mentre i suoi effetti mi trapassano da parte a parte. I problemi apparenti assumono una concretezza inquietante quando vengono appoggiati nel futuro tramite i rimedi istantanei dell’autodistruzione. Non è facile tenersi in equilibrio sul vuoto e durante i periodi ricchi di ostilità sembra che ogni cosa perda il suo significato variabile, ma da questa odissea interiore è possibile trarre un impulso che traini l’esistenza oltre le difficoltà più imponenti. L’impulso a cui mi riferisco ovviamente non ha i caratteri vacui e fuorvianti di un’ideologia o di una religione, ma si tratta di una spinta concreta e io ritengo che essa sia una forza della natura. Concludo questo breve scritto trascurabile con una citazione a cui tengo molto: “Perché noi siamo liberi di fare quello che vogliamo, di uccidere, stuprare, rapinare e vomitare critiche insensate, parlare e dire solo sempre inutili cazzate, per un bisogno quotidiano di tensione, in questo sfoggio naturale di pazzia ci si può difendere innestando il modo dell’indifferenza, contro questa crescita esponenziale di follia e di violenza, o ritornare indietro all’antica pazienza”.
Ieri sono andato in bicicletta lungo le salite del Monte Argentario e ho raggiunto una radura che si trova tra la grande croce che svetta dal monte e la cosiddetta “Punta Telegrafo”. Ho appoggiato la bicicletta accanto a un cespuglio e ho passeggiato a circa cinquecento metri sul livello del mare. Mi sono levato la t-shirt e tra un passo e l’altro ho cercato di prendere un po’ di sole mentre qualche folata muoveva i miei capelli e la vegetazione. Sono salito per qualche minuto su una roccia per godermi pienamente il panorama e mi sono sentito come un pastore delle Highlands scozzesi. Ho lasciato il mio eremo pomeridiano dopo un’ora e come al solito durante il ritorno verso casa mi sono divertito ad affrontare le discese che conducono alla strada per Orbetello. Qualche giorno fa ho trascorso un pomeriggio simile in un altro punto del Monte Argentario e anche in nel corso di quelle ore ho potuto apprezzare per l’ennesima volta una delle espressioni più belle della solitudine. Mi chiedo se qualche talebano armato riesca ancora a meravigliarsi dei paesaggi di cui gode dalle montagne afghane e mi domando se il suo occhio si sia abituato a certe vedute naturali come la sua mano si è assuefatta all’omicidio. Non ritengo che la natura sia bella, ma la trovo sublime nell’accezione che Schopenhauer dà a questo termine.
Ultimamente le iniziative di Beppe Grillo tengono banco sugli organi di informazione e ne sono contento nonostante la politica non mi interessi. Il qualunquismo becero di Grillo forse non è tale, ma io lo apprezzo in questa veste perché sono un qualunquista. A me non interessano le proposte dei cittadini che il comico veicola alla classe politica né le invettive che egli rivolge ai brutti ceffi delle due camere, ma mi diverte il modo in cui tutto ciò avviene. Riconosco a Grillo una grande verve e trovo che si discosti nettamente dalla satira asfittica che popola la televisione. Il mio è un giudizio puramente formale dato che non prendo in esame il contenuto di questa querelle mediatica. L’ironia di Grillo mi piace perché ricorre a figure forti che suscitano uno sdegno ridicolo anche in alcune persone che ritengono di possedere una grande apertura mentale. L’attacco a Prodi ha generato qualche polemica perché il comico ha paragonato il Presidente del Consiglio all’Alzheimer, ma le critiche che si sono levate per l’utilizzo di una malattia in un contesto ironico mi sono sembrate degne dei migliori paraculi di questa nazione. Penso che Grillo abbia usato delle espressioni legittime, ma purtroppo alcuni italiani, nella loro infinità provincialità, non riescono ad accettare un certo tipo di ironia perché danno la priorità ai motivi per cui indignarsi invece di anteporre gli spunti su cui riflettere al torpore del buonismo. Per fortuna l’Italia è un paese pigro, altrimenti taluni invece di criticare Grillo sarebbero costretti a frequentare un corso accelerato per schivare le molotov. Spero che questo spettacolo contini senza annoiarmi.
La trappola della tranquillità apparente
Pubblicato mercoledì 19 Settembre 2007 alle 15:08 da FrancescoTrovo che sia inquietante il modo in cui il microcosmo di un individuo possa stravolgere la percezione di ciò che lo circonda. Un osservatore esterno può notare quanto siano radicate le convinzioni di un suo simile e può constatare quanto tali convinzioni siano in grado di ridurre pericolosamente la realtà a un elemento accessorio. Le idee talvolta si inerpicano più di quanto dovrebbero per coprire i vuoti lasciati dalle mancanze emotive e creano una vegetazione così fitta attraverso cui la percezione di ogni accadimento riesce a filtrare solo parzialmente. Ritengo che sia inquietante l’attenzione morbosa che taluni riservano agli interessi che sono in grado di deviare il loro pensiero dalla contemplazione delle mancanze affettive. Oltre a questo atteggiamento di difesa penso che si possa scorgere un comportamento antitetico e credo che quest’ultimo mi riguardi. Qualcuno tenta di nascondere le reali condizioni della sua esistenza e qualcun altro, come me, insiste tenacemente sull’analisi e la descrizione della propria vita alla luce del sole. Trovo che entrambi i casi non portino risultati soddisfacenti, ma credo che il secondo presenti qualche spiraglio in più del primo a patto che non si atrofizzi con la speculazione intellettuale della propria condizione. Presumo che questo processo si possa realizzare solo attraverso un’autocritica e un’analisi di sé tanto ferree quanto sincere e ritengo che solo il diretto interessato possa esserne artefice; escludo a priori la validità di qualsiasi intervento esterno e lo connoto come un semplice atto di vanità di qualche aspirante samaritano. Suppongo che la modificazione degli attributi della propria vita possa avvenire solo empiricamente e immagino che la riflessione sia in grado unicamente di affinare gli strumenti con i quali agire concretamente su se stessi. Nel cambiamento d’essere credo che il tempismo giochi un ruolo fondamentale: ogni mossa a tempo debito.
Comprai le armi dalla mia volontà e mi alleai con l’incoscienza per spodestare i miei interessi apparenti. Io e le mie azioni crivellammo legami inutili. Lanciammo razzi anticarro contro le barricate della convenienza e del quieto vivere per riprenderci la nostra libertà del cazzo. Gli occhi si illuminarono d’immenso quando facemmo saltare in aria le inibizioni. I nostri cecchini si nascosero per giorni nei palazzi vuoti e si appostarono alle finestre per sparare contro le resistenze della mia mente. Diramai l’ordine di lasciare in vita i feriti della mia parte avversa per tendere agguati più efficaci e sanguinari ai loro soccorsi. La mia disciplina guidò i suoi bombardieri sopra gli accampamenti del vittimismo e ne distrusse buona parte con due passaggi. Un giorno, dopo l’ennesima mattanza, salii le scale della mia interiorità e trovai l’ombra di mio padre: le sparai alla gambe, le sorrisi e prima di volgerle le spalle la finii con un colpo alla testa. Le mie debolezze alzarono una bandiera bianca, ma io la macchiai con il loro sangue durante le ultime schermaglie e non accettai né rese né prigionieri. Dopo la fine delle ostilità ordinai la fucilazione dei miei ricordi, ma non dimenticai il loro passaggio per evitare di ingannarmi. Presi il comando di me stesso e incominciai a ricostruire la mia personalità sopra la negatività che avevo ridotto in macerie.
Come uno straniero non sento legami di sentimento
Pubblicato lunedì 17 Settembre 2007 alle 21:19 da FrancescoLe mie giornate trascorrono quietamente tra il diletto della lettura e l’allenamento del corpo. Ogni tanto qualcuno mi saluta e io ricambio, o viceversa. Mi affatico e mi riposo per dare una forma gradevole al tempo che ho a mia disposizione. Bevo almeno due litri d’acqua al giorno e piscio parecchio. Frequento il silenzio urbano della notte per abitudine e quando cammino da solo lungo le strade buie del mio comune mi sembra di esplorare una città fantasma. Ho iniziato a lavorare sul mio reportage coreano, ma sono ancora lontano dal completamento del suo montaggio a causa della mia scrematura oculata: finora ho ricavato nove minuti dalla prima ora di riprese. Ho quasi terminato di leggere “L’evoluzione Creatrice” di Henri Bergson e ho già scelto le mie letture future. La scorsa notte ho ordinato “I Fratelli Karamazov” di Dostoevskij del quale ho già letto diverse opere: “Delitto & Castigo”, “I Demoni”, “Memorie dal Sottosuolo” e “L’idiota”. Ho seguito il consiglio che il professore Sands mi ha dato a Seoul e ho ordinato “A Soldier of the Great War”, un libro di Mark Helprin che è non è ancora stato tradotto in italiano: ne approfitterò per perfezionare il mio inglese.
Una giovane stringe al petto un maglione di cashmere e piange perché l’uomo che lei ha sempre rifiutato adesso non la cerca più. Un ragazzino saluta i compagni di vandalismo alle due di notte e mentre torna a casa si pone le prime domande esistenziali. La figlia di una crisi adolescenziale annota aforismi decadentistici sopra un diario scolastico. Un ubriaco cerca di dimenticare i suoi attimi di sobrietà e attende che la cirrosi epatica gli strappi la vita. Una casalinga graffia la schiena di un condomino mentre quest’ultimo le dona un orgasmo adultero. Alcune amiche invecchiano, ma quando si incontrano ognuna di loro sottolinea il ringiovanimento dell’altra. Un laureando non riesce a sostenere un esame di coscienza e per questo motivo vuole uccidersi senza dare spiegazioni. Qualcuno si sforza di esprimere la propria opinione e tenta di imbastire discussioni costruttive per ricamarsi un’identità sociale sull’illusione del suo altruismo apparente. Un volto occhialuto cerca risposte nei libri, ma trova soltanto spunti per incrementare la sua spocchia. Un uomo adiposo blatera proclami rivoluzionari che inframmezza con forchettate di pasta davanti a un collega annoiato. Una donna lunatica non riesce ad accettare la propria sterilità e vuole compiere un infanticidio per liberarsi dalla sua frustrazione, ma cambia idea ogni volta che si trova davanti a un passeggino incustodito e ci ripensa nuovamente quando si chiude nella sua stanza per disegnare donne incinte.
Trascorsi l’infanzia a osservare le condotte degli adulti e con l’orecchio captai le prime dissonanze sulle quali cominciai a riflettere tra i succhi di frutta e le pubblicità della Mattel. Imparai l’ambiguità dei triangoli prima che mi venissero impartite lezioni di geometria e fu grazie alla mia curiosità che scoprii i tre vertici di una trasgressione banale: un padre, sua moglie e un’amica di quest’ultima. Osservai i vizi capitali di alcune damigelle e provai una forte repulsione verso le loro abitudini malsane. Iniziai a studiare il malessere di coloro che avevano preceduto la mia nascita e ne feci tesoro per gli anni seguenti. Quando appresi le aberrazioni comuni delle persone normali diventai schivo e sfiorai la misantropia più volte prima di assumere il controllo di me stesso. La mia inesperienza disseminò paure ridicole dinanzi al mio cammino e io persi tempo di fronte alle loro ombre burlesche. Cercai un’identità tra gli stereotipi, ma non riuscii a indossarne nemmeno una e mi avvicinai al vuoto per la sua mancanza di attributi: lo reputai un ottimo punto di partenza e non me ne pentii. Sfuggii dall’avvento dell’edonismo nocivo ed evitai di finire in un suo gulag. Mi rifugiai nel silenzio e rimasi nel mio eremo fino a quando le tendenze all’autodistruzione non abbandonarono i confini delle mie regioni encefaliche. Nel corso dell’assedio emotivo studiai alcune mappe frammentarie per ripiegare verso la mia evoluzione e quando le ostilità cessarono io iniziai a seguire la linee oblunghe che avevo tracciato con un compasso temporale sul piano dello spazio.
Giustappongo una riflessione all’altra per comporre il mio mosaico esistenziale. Studio me stesso e non cerco di risolvere i problemi dei miei simili dato che non ne ho la facoltà. Coltivo la pazienza in silenzio e sfrutto le perturbazioni della mia vita per irrigarne le radici. La spiritualità non mi appartiene e non dispongo di armi trascendentali per difendermi dalle eruzioni della sofferenza, ma nemmeno il materialismo si confà alla mia natura. Il rifiuto di ogni fede religiosa e di ogni sua antitesi mi ha fatto scoprire le uniche ricchezze inalienabili dell’umanità: le domande metafisiche. Ho uno scrigno pieno di interrogativi a cui mancano risposte che non cerco. Accetto l’inconoscibilità delle mie origini e l’incertezza della mia destinazione anche se non sono sicuro della loro esistenza. A volte mi sembra che ogni cosa sia ingenerata nonostante l’opinione contraria dell’evidenza si desti di continuo dinanzi alle mie percezioni. Accarezzo con dolcezza materna le paure che mi sono rimaste e accudisco la mia ignoranza affinché non venga inquinata dalle parole faziose che hanno tradito la verità per mettersi al servizio del quieto vivere. Intreccio trame dolorose e intense, ma non emetto suoni lamentosi. Sono contento e incompleto: il mio stato d’animo è un paradosso che sfugge alla dualità.