Si trovava dinanzi alle porte dell’ennesima notte senza senso in una metropoli dal nome trascurabile. Portava sempre con sé delle velleità nichilistiche che tentava di incollare sopra ogni sua azione. Possedeva una buona cultura, ma le esperienze negative della vita lo avevano educato alla morte dello spirito. Come ogni notte le tenebre conferivano un’aria spettrale al grigiore della città e orchestravano cupamente i lamenti garbati delle anime insonni. Fabien vagava senza meta lungo le arterie urbane, tra i rifiuti pigri, le luci esauste e le angosce amorfe. I palazzi ostentavano virilmente l’indifferenza dei loro inquilini e non osavano venire meno al ruolo di oppressori architettonici. D’un tratto Fabien si precipitò verso il parapetto di un ponte e per qualche istante pensò di gettare i suoi trentasette anni nel vuoto, ma si arrestò quasi subito perché sapeva che la sua morte avrebbe generato solo delle pratiche burocratiche e non quel sentimento di compassione che da tempo aveva assunto le fattezze di un’utopia finale. Se in quel momento almeno una persona lo avesse amato probabilmente si sarebbe lanciato nell’acqua turpe di gennaio per lasciare una firma indelebile nella memoria di un suo simile. Appoggiò la schiena al parapetto, chiuse gli occhi e aprì i cancelli a quelle nostalgie che sono comuni a tutti gli uomini. Dopo alcuni minuti di reminiscenze iniziò ad avvertire i moti della frustrazione e per attenuare l’emorragia del suo pneuma lanciò un grido acuto, ma il suo sfogo plenilunare non riuscì a scuotere nemmeno una foglia morente e il suo latrato umano si perse davanti alla circospezione di un gatto randagio. Non c’era un solo pensiero anestetizzante che fosse disposto a paracadutarsi sulla sua mente. Fabien riprese il vagabondaggio in mezzo alle ombre degli idrocarburi e alle scorie della solitudine. Si sentiva oppresso da quella cella agorafobica, non gli importava un cazzo dei sorrisi vacui che aveva collezionato nelle ultime tre decadi e passo dopo passo gli restava soltanto un altro passo da fare. All’improvviso si accasciò volontariamente e appena raggiunto il suolo iniziò a strusciare la guancia destra sul marciapiede, poi aprì le mani e le sue palme cominciarono a scambiare il cemento per il seno di una donna. La follia voluttuosa fu breve e la strada non oppose resistenza. Dopo il coito immaginario Fabien assunse una posizione fetale e restò immobile per alcuni minuti in quell’incubatrice a cielo aperto. I fari indifferenti di una vecchia Volkswagen lo convinsero ad alzarsi. Con estrema dignità ripose sulla fronte il diadema intarsiato di drammi e mosse i primi passi verso la sua ultima destinazione. Camminava mestamente, i fianchi flaccidi oscillavano tra il serio e il faceto, la bocca non si serrava mai e le braccia pendevano come quelle di un impiccato. Dopo pochi metri di marcia la testa di Fabien iniziò a girare vorticosamente ed egli fu costretto d accettare l’aiuto di una panchina tatuata dalle infatuazioni adolescenziali. Si tolse il giubbotto e allentò la cintura dei pantaloni, poi fece un respiro profondo e con le dita iniziò a massaggiare le tempie. Alzò il capo verso la luna e dalle zone più recondite del passato emerse la figura aulica di sua madre. Fabien tese il braccio destro verso quell’allucinazione familiare e con voce gutturale disse: “Mamma, prega per me tu che hai un dio”. Chiuse gli occhi e la presenza illusoria della genitrice evaporò di fronte alla sua instabilità mentale. L’ipotermia si introdusse silenziosamente nel suo soliloquio e gli restò accanto fino all’ultimo respiro. Dalla finestra di un palazzo vittoriano un uomo distinto assisteva con severità alla lenta agonia di Fabien: la sua mano destra stringeva con forza un cellulare e la sinistra avviluppava con altrettanta energia la maniglia di una porta. Costui non chiamò un’ambulanza, non chiamò una volante, ma iniziò a piangere e il dolore paterno frammisto alla rassegnazione travolse i suoi sessantacinque anni. Un uomo perdeva la vita, un altro la immolava alla sofferenza. Lo scandalo e le condoglianze si preparavano ad assumere forme orali e floreali, mentre l’ennesima lezione di una tragedia umana si accingeva ad abbracciare l’indifferenza e l’incomprensione dei velocisti di ogni giorno.
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