Conobbi L. per caso e all’inizio non ne fui molto entusiasta, ma alla fine riuscii a mettere a fuoco la sua figura e mi accorsi con stupore che era una silfide incantevole. Parlammo a lungo e visitammo le nostre memorie tra una fase lunare e l’altra. I ruoli si erano invertiti e ogni volta che dialogavamo sembrava che le nostre voci intonassero un vaticinio radioso. Scoprimmo che nelle nostre vite ricorrevano delle date identiche e pensai che la numerologia avesse deciso di darci la sua benedizione. L. iniziò a presentarmi il suo microcosmo lascivo e io rimasi ammaliato dal modo in cui lo introduceva nei nostri discorsi eterogenei. In un primo momento credetti che L. fosse una puttana, ma poi capii che era libera (e non semplicemente libertina) e scevra dalla stupidità vereconda della pudicizia. Un giorno percorremmo assieme le arterie del Rinascimento e snodammo i nostri colli sotto i soffitti gigliati. Un’atmosfera rarefatta s’impadronì dello spazio vuoto che si allargava e si restringeva incessantemente tra la mia spalla destra e la sua spalla sinistra. Proseguimmo il nostro vagabondaggio simbiotico per un po’ prima di rientrare nei nostri alveari. Successivamente continuammo a scambiare frasi e intonazioni, rumori gutturali e onomatopee curiose. Una mattina un errore ciclopico mi sequestrò e mi fece trasportare da Caronte sulle sponde di un momento sbagliato. Mi ritrovai nel santuario di L. e ingiuriai lei e le sue vestali prima di dileguarmi nelle ombre. Nella stessa tenebra ritrovai il volto di L. e la severità del suo sguardo mi trafisse da parte a parte: in quel momento pensai che un drammaturgo stesse per scrivere con il mio sangue il finale del suo componimento. L. tornò nel suo regno e il senso di colpa mi riaccompagnò nella mia necropoli.