Ci incontrammo per la prima volta ad Algeri, quando i francesi sfoggiavano ancora il képi sotto il sole africano; allora gli ultimi cingolati disegnavano linee oblique sopra le sabbie sahariane. Tornammo in Europa insieme e ci scambiammo promesse a forma di universo per farci coraggio a vicenda, ma le nostre parole non mi salvarono dalle pallottole e tu qualche anno dopo diventasti la sposa di un uomo che non aveva talento né colpe e allo stesso tempo indossasti i panni della vedovanza. Tua figlia crebbe arguta e infelice come te; se ne rese conto il commissario quando vi trovò abbracciate ed esanimi accanto al veleno per topi. Nella vita successiva ci incontrammo solo una volta e fu per caso. Ci sfiorammo nelle profondità della metropolitana londinese durante i giorni della contestazione studentesca, ma quell’attimo di inconsapevolezza non ci permise di ricordare noi stessi. Vivemmo e morimmo un’altra volta per vincoli biologici. Sotto una legge simile a quella del samsara nascemmo nuovamente e capitammo nella stessa famiglia: tu venisti alla luce quattro sei dopo di me. Il nostro amore risorse in tenerà età tra le mura domestiche, ma ci rendemmo conto della sua origine solo quando ci baciammo all’entrata dell’ateneo: quel giorno grandinò a lungo e piovve la prima accusa d’incesto. Non ci curammo dei giudizi morali e ci trasferimmo in città per nascere un’altra volta senza prima morire. Le cose non andarono bene. Presi la pistola d’ordinanza e ti sparai in testa per gelosia, poi la puntai verso di me e staccai il biglietto per un’altra fermata dell’eternità.
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