Domenica sono rimasto a casa per riprendermi dalle fatiche dei giorni precedenti, ma ieri pomeriggio sono montato nuovamente in bicicletta con lo zaino sulle spalle e ho allungato ancora il mio percorso ciclistico. Come al solito ho pedalato per via di Cameretta, mi sono arrampicato lungo l’Ansedonia e ho proceduto agevolmente fino a Chiarone Scalo, ma da quest’ultimo punto invece di dirigermi subito verso Orbetello ho imboccato la strada verso Borgo Carige come ho fatto qualche giorno fa per la prima volta. Ho continuato a pedalare per un po’ e ho affrontato una salita di tre chilometri fino al cuore di Capalbio, ho fatto un breve giro per il paese e mi sono goduto la discesa per tornare nuovamente a Borgo Carige. Ho proseguito lungo via Barrucola, ho superato due incroci, di cui uno sull’Aurelia, ho raggiunto Capalbio Scalo e infine ho pedalato verso casa. Ringrazio Eolo per il vento a favore che mi ha concesso sul tratto finale. Ho percorso circa sessantacinque chilometri, ma ho arrotondato ancora per difetto dato che al programma con cui ho calcolato la distanza risulta un percorso di sessantasei chilometri. Non sono arrivato a casa stremato, perciò suppongo che il mio fisico mi consenta di affrontare chilometraggi maggiori senza problemi. Dopo il ritorno, prima di fare un pasto adeguato alla fatica compiuta, mi sono gustato una doccia un po’ fresca e ho pensato: “Davvero si può stare meglio?”. Concludo con un omaggio al panorama che offre l’altitudine di Capalbio di cui avevo dimenticato la bellezza rurale.
In una zona di penombra qualcuno brucia la sua gioventù per accendere un incenso passionale. I gesti delle mani e le espressioni facciali seguono diligentemente le indicazioni della spontaneità. Due menti e due corpi si allacciano con i fili scoperti delle loro sofferenze per creare un entusiasmo erotico che non attinge nulla dalle mode millenarie del meretricio. Ogni rappresentazione cuoriforme dell’innamoramento è erronea e può funzionare solo per evocare un po’ di romanticismo melenso tramite la cellulosa e la celluloide. Il sentimento più elevato del genere umano è amorfo, ma spesso il suo significato inesplicabile viene stravolto per essere adattato squallidamente a un credo, a un principio, a una causa persa o agli obblighi dell’imprinting. Si tratta di un’esperienza prettamente empirica che indossa un cardigan trascendentale perché è casual (nel suo significato anglico). L’amore è una manifestazione della natura a cui l’abitudine e l’ignoranza attribuiscono dei caratteri eccessivamente antropomorfi per consentire alle vite umane di giustificarne la negazione o la banalizzazione, ma un punto di vista, per quanto sia diffuso e accettato, non può scalfire le fondamenta di un noumeno ed è per questo motivo che i veri amanti sfoggiano tutta la loro atarassia di fronte ai sofismi che lavorano per le comodità nocive della pigrizia emotiva. Queste parole sono pleonastiche perché l’amore nasce in seno alla conoscenza e chi sa non ha bisogno di sapere, a meno che non commetta uno sbaglio più grande di tutte le sue cognizioni.
Ho scattato questa fotografia stanotte durante un moto d’entusiasmo. Ho iniziato ad accogliere alcune sensazioni piacevoli e spero che soggiornino a lungo nel mio stato d’animo con vista sul futuro. L’eccitazione per il viaggio in Corea del Sud mi accarezza dolcemente e mi tiene compagnia. Ho provato emozioni simili a febbraio, in occasione della trasferta nipponica, e tutto ciò che ne è seguito è stato magnifico. Non voglio fare paragoni, ma non posso fare a meno di scorgere delle analogie tra ciò che è successo qualche mese fa e ciò che accadrà prossimamente. Anche se non conosco l’amore credo che sia la vetta più elevata a cui una persona possa ambire accanto a un’altra persona, ma a livello individuale penso che non ci sia un’esperienza più solenne di un viaggio solitario. Ritengo che la forza di certi eventi sia inesplicabile a meno che non si scenda a compromessi con la prosaicità, perciò evito di continuare questo sproloquio e vado cordialmente a fare in culo con il sorriso stampato sul volto.
Oggi ho modificato il mio itinerario ciclistico. Sono partito attorno alle cinque di pomeriggio e come al solito sono arrivato fino a Chiarone Scalo, ma invece di proseguire per Capalbio Scalo ho imboccato la strada che collega Selva Nera a Borgo Carigie e ho pedalato diversi chilometri in più prima di puntare nuovamente verso Orbetello. Dopo trenta chilometri ho fatto una breve sosta per dare un po’ di tregua alla mia schiena e per abbeverarmi, ma dopo un paio di minuti ho rimesso lo zaino sulle spalle e ho ripreso a pedalare con il retrogusto del Gatorade in bocca. Ho percorso più di cinquanta chilometri con un’andatura abbastanza buona per le mie capacità e ho coperto questa distanza per la quarta volta nell’arco di una settimana. In autunno vorrei percorrere nuovamente la Scansanese, ma questa volta sia all’andata che al ritorno. Ora come ora per me si tratta di un’impresa improba: il fiato non mi manca, ma devo lavorare sulla resistenza delle gambe. La Scansanese è piena di saliscendi e di tornanti che si snodano attraverso paesaggi splendidi e per raggiungerla occorre attraversare persino un tratto dell’Aurelia, ma è stupenda nonostante occorra un po’ di impegno e di pazienza per domarla. Ho avuto la forza e la fortuna di affrontare le salite e le discese della Scansanese in due occasioni e in un primo momento non è stato facile a causa del ricordo caustico di J. ma la seconda volta è andata meglio.
A distanza di sei mesi dal mio viaggio in Giappone ho deciso di tornare in Estremo Oriente. Nelle ultime settimane ho vagliato molte destinazioni e alla fine ho optato per la Corea del Sud. Voglio atterrare a Seoul perché sono affascinato dalla sua lontananza. Non ho bisogno di preamboli rassicuranti per lasciarmi novemila chilometri alle spalle. Non mi piacciono i viaggi organizzati perché sono tanto comodi quanto orrendi e io invece cerco di fondere la bellezza dell’improvvisazione con la funzionalità del viaggio: in altre parole sfrutto i principi della Bauhaus per evitare i ladrocini delle agenzie turistiche. Come al solito mi occuperò personalmente del biglietto aereo e dell’alloggio per non appoggiarmi a terzi e per dare un tocco totalmente personale al mio soggiorno coreano. Ho intenzione di partire durante la prima metà di agosto e spero che nulla ritardi il mio decollo verso il trentottesimo parallelo, ma l’esperienza mi costringe a non escludere l’eventualità di una breve posticipazione. Non ho ancora deciso se affidare la mia vita all’Air France o all’Aeroflot, ma sono molto attirato dalla brutta nomea della compagnia russa e dato che prima o poi dovrò morire non mi precludo aprioristicamente l’ebbrezza di volare a bordo di un Antonov o di un Tupolev. Ho solo un’idea approssimativa delle sensazioni che mi aspettano, ma è proprio questa vaghezza dolce che mi allatta con amore materno ogni volta che mi accingo a partire per qualche posto senza qualche motivo preciso. Penso che un viaggio assuma un senso formale soltanto al suo termine, perciò può nascere anche da uno starnuto dell’ispirazione.
Conobbi L. per caso e all’inizio non ne fui molto entusiasta, ma alla fine riuscii a mettere a fuoco la sua figura e mi accorsi con stupore che era una silfide incantevole. Parlammo a lungo e visitammo le nostre memorie tra una fase lunare e l’altra. I ruoli si erano invertiti e ogni volta che dialogavamo sembrava che le nostre voci intonassero un vaticinio radioso. Scoprimmo che nelle nostre vite ricorrevano delle date identiche e pensai che la numerologia avesse deciso di darci la sua benedizione. L. iniziò a presentarmi il suo microcosmo lascivo e io rimasi ammaliato dal modo in cui lo introduceva nei nostri discorsi eterogenei. In un primo momento credetti che L. fosse una puttana, ma poi capii che era libera (e non semplicemente libertina) e scevra dalla stupidità vereconda della pudicizia. Un giorno percorremmo assieme le arterie del Rinascimento e snodammo i nostri colli sotto i soffitti gigliati. Un’atmosfera rarefatta s’impadronì dello spazio vuoto che si allargava e si restringeva incessantemente tra la mia spalla destra e la sua spalla sinistra. Proseguimmo il nostro vagabondaggio simbiotico per un po’ prima di rientrare nei nostri alveari. Successivamente continuammo a scambiare frasi e intonazioni, rumori gutturali e onomatopee curiose. Una mattina un errore ciclopico mi sequestrò e mi fece trasportare da Caronte sulle sponde di un momento sbagliato. Mi ritrovai nel santuario di L. e ingiuriai lei e le sue vestali prima di dileguarmi nelle ombre. Nella stessa tenebra ritrovai il volto di L. e la severità del suo sguardo mi trafisse da parte a parte: in quel momento pensai che un drammaturgo stesse per scrivere con il mio sangue il finale del suo componimento. L. tornò nel suo regno e il senso di colpa mi riaccompagnò nella mia necropoli.
Un omaggio al grimpeur di Cesenatico
Pubblicato giovedì 26 Luglio 2007 alle 14:47 da FrancescoNel 1998 il Giro d’Italia passò anche per Orbetello e fu un momento abbastanza emozionante. In quell’anno Marco Pantani conquistò la maglia rosa e io mi esaltai di fronte alle sue imprese. Ricordo che negli anni seguenti, in occasione del Giro d’Italia e del Tour de France, trascorsi molti pomeriggi di fronte a Rai Tre per ammirare le fatiche disumane dei ciclisti e forse da quelle immagini estenuanti iniziò a svilupparsi in me la passione per gli sforzi salutari. Per un po’ di tempo tentai di emulare le imprese degli scalatori con quella tenera ingenuità che appartiene ai ragazzini solitari e cominciai ad affrontare qualche salita, ma non ero un Miguel Indurain in erba e invece dello Zoncolan o dell’Alpe d’Huez avevo di fronte le pendenze del Monte Argentario. Dopo un paio d’anni il mio interesse per le due ruote scemò, ma si riaccese in occasione della morte di Marco Pantani e crebbe al di là dello sport. Oggi continuo a coltivare il piacere della pedalata e ogni volta che ne ho la forza mi allontano il più possibile dal punto di partenza, qualunque esso sia. Non sono un ciclista mancato, ho un passo ridicolo e poca predisposizione all’agonismo, ma riesco ad affrontare ogni salita e quando torno a casa dopo qualche ora passata in sella mi sento appagato. Appunto su queste pagine virtuali un video molto emozionante che celebra le gesta di Marco Pantani perché ogni tanto penso alle sue imprese quando i miei polpacci sono prossimi allo stiramento e le ginocchia mi dolgono. Negli ultimi giorni sono comparse nuove ombre sul ciclismo, ma in questa disciplina c’è sempre un raggio che trafigge la cupidigia per il podio e si tratta della sfida con se stessi che si risolve nel classico parallelismo tra sport e vita.
Così parlò il capotribù degli sconsiderati
Pubblicato mercoledì 25 Luglio 2007 alle 20:02 da FrancescoAssistiamo alla caduta di un’altra intesa. Accenniamo coralmente brevi sospiri per cadenzare i riti del silenzio e compiamo abluzioni lacrimose mentre il cosmo muta lentamente. Siamo clandestini e tentiamo di intrufolarci nell’Olimpo, ma ogni volta i nostri limiti ci scortano fino al giaciglio di Bellerofonte e ci intimano di non violare mai più i confini aulici. Non crediamo a chi ritiene che il bene sia solo il frutto dell’assenza del male e sembra che la nostra genia non possa fare a meno di confidare eccessivamente nelle ricompense illusorie di un merito congenito. Pensiamo che tutto ci sia dovuto perché siamo stati abituati a crederlo da chi ci ha preceduto, ma la realtà è tremendamente diversa e talvolta la nostra indole non è in grado di accettarla. Parliamo continuamente, ma proferiamo soltanto frasi vuote e lasciamo che il peso dei nostri concetti cada sui nostri cuscini quando spegniamo le luci. Ci nutriamo con cucchiai di spocchia e ci sentiamo legittimati a fare ciò che non vogliamo subire, ma non riusciamo ad accorgercene nemmeno quando ci viene somministrato un castigo per curare una patologia delittuosa. Dissertiamo sui problemi dell’habitat mentre la nostra personalità va a fuoco e ci illudiamo di dare una soluzione agli estranei quando non riusciamo nemmeno a dare una rappresentazione elementare dei nostri problemi. Sia fatta la volontà della nostra indolenza.
Oggi ho pedalato a lungo. Sono andato a Pescia Romana e prima di tornare indietro ho proseguito per alcuni chilometri oltre questa frazione del comune di Montalto di Castro. Sulla via del ritorno ho fatto delle brevi deviazioni e mi sono fermato due volte per gustarmi le grazie della Maremma. Ho portato con me lo zaino che usavo alle medie per tenerci una bottiglia d’acqua da un litro e mezzo. La possibilità di bere mi ha permesso di fare uno sforzo maggiore del solito: ho pedalato a un ritmo abbastanza sostenuto e, arrotondando per difetto, ho percorso circa cinquantacinque chilometri senza risentirne troppo. Sono soddisfatto di questa giornata estiva e nemmeno il vento contrario è riuscito a tediarmi. Non ho vinto il Tour de France, ma almeno ho concluso al primo posto il tour de force dell’abbattimento emotivo a cui sono stato costretto a partecipare dalla mestizia di alcuni fatti recenti. Credo che la fatica salubre sia un’ottima risorsa per affrontare i momenti meno sereni e oggi, per l’ennesima volta, ne ho avuto la prova sulle strade che si trovano tra la Toscana e il Lazio. Se l’angoscia mi insegue io cerco di pedalare più velocemente per vedere chi è il primo che si ferma e finora ho sempre avuto la meglio. Non potrò affidarmi agli sforzi fisici per tutta la vita ma ho ancora molte energie da spendere e continuerò a farlo a meno che qualche grave malattia mi faccia visita o che un incidente non ritardi all’appuntamento con le mie ossa.
Salgo un’altra volta sul patibolo per pagare le mie colpe. Non ho bisogno che il boia mi aiuti e mentre quell’uomo incappucciato continua a guardare la televisione io mi preparo educatamente a subire l’ennesima condanna a morte. Non mi interessa se il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto dato che alla fine brindo sempre con l’arsenico. Quando sbaglio mi metto il cuore in pace e porto in spalla tutte le conseguenze senza fiatare contro il fato. I miei errori sono prodotti artigianalmente e ogni colpa appartiene soltanto alle mie decisioni. Sono l’unico azionista dei miei fallimenti e finanzio ogni disastro con capitali d’inconsapevolezza. Memorie senza vita vengono a farmi visita durante le ore piccole delle notti grandi e mi calpestano a turno fino a quando non riesco a fuggire nel sonno. Ho un chiodo piantato nel cranio per ogni anno della mia vita, ma sono ancora in piedi e la mia voglia di stare al mondo è sempre la stessa. Non demordo anche se il tempo passa e le possibilità si riducono. Sposto a fatica tutti i macigni emotivi che rallentano la mia marcia verso l’ignoto, ma ho la pazienza e la forza per continuare ad andare avanti nonostante tutti gli impedimenti. Le parole non mi arrestano e non ci riescono nemmeno le schiere di delusioni che evoco involontariamente nei momenti meno opportuni. Non voglio che qualcuno mi sostenga perché certe cose le posso risolvere unicamente da solo. Faccio i conti con me stesso e so che non mi conviene ingannarmi. Ho troppa esperienza per farmi distruggere dalle sconfitte, ma non ne ho ancora abbastanza per evitarle. Un giorno diventerò la somma delle mie correzioni e sarò pronto a proteggere ciò che la mia condotta mi ha negato fino a questo momento, ma se non dovessi farcela accetterò l’insuccesso senza protestare e comprerò un appezzamento di terra per coltivare il senso delle mie rughe.