L’ansia è una burlona e spesso i suoi scherzi sono innocui. La paura del futuro è uno dei timori più frequenti che incontro nelle parole introspettive dei miei simili, ma fortunatamente la mia esistenza è esente da questa fobia. L’invecchiamento non mi incute terrore e non mi spaventa nemmeno l’arroganza giovanile con cui accompagno questa affermazione. Non ho mai rifiutato l’invito della mia mente alla contemplazione della mia morte e conservo ancora vividamente il buffo ricordo delle angosce infantili che mi hanno seguito durante le prime frequentazioni con i pensieri funerei. Riesco a scorgere la magnificenza del vuoto che adorna i miei giorni perché ho interiorizzato adeguatamente la mia mortalità. Taluni innalzano la morte come se fosse il vessillo di una condanna, ma per me si tratta solamente di una tappa biologica a cui non aggiungo né sottraggo un valore trascendentale. La comprensione della fine della vita, e non la sua semplice accettazione d’indole passiva, mi consente di debellare l’enclave della morte che spesso viene edificata con prepotenza dagli eventi prima che la realtà ne giustifichi la presenza. In parole povere tento di attenermi alla realtà della natura e alle sue leggi per evitare che il pensiero della morte mi uccida. Nel corso degli anni il vizio della sopravvivenza e la passione utopistica per il raggiungimento di una lettura oggettiva del mondo mi hanno indirizzato verso un posto sicuro che si trova nel mio costato tra substrati di gioia e malinconia. Alcune volte cado nella trappola dell’ambiente che mi circonda e mi approprio di bisogni che non soddisfo in quanto non mi appartengono. Le mie parole lodano pacatamente la vita e costituiscono una dissociazione lessicale dal tumulto melodrammatico con cui certa umanità definisce istrionicamente l’esistenza.
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