È una bella mattina di giugno. La finestra della mia stanza è aperta e lascia che il suono di “Electric Tears”, un album strumentale di Buckethead, raggiunga l’esterno e si amalgami con il crepitio della vita quotidiana. Un vento leggero tenta di portare la mia tenda gialla alla deriva. Una serie infinita di arpeggi evocativi accompagna i movimenti apatici del mio cranio. Sono al culmine delle forze e sono avvolto da una forma di benessere che non conosce compromessi né ingenuità. Levito sul vuoto e se un fachiro cieco mi vedesse probabilmente formulerebbe accuse di doping verso il mio chakra. In realtà non sono attratto dai culti orientaleggianti, ma vorrei donare riserve infinite di cibo a chi coltiva i campi di oppio nell’Indocina e cedere i campi di oppio a chi ha riserve infinite verso le proprie inclinazioni. Doppi sensi e ambiguità emergono come pesci a seguito di una battuta di pesca a base di dinamite. Un esercito di bocche pronuncia qualcosa di innominabile e la gotha di turno si risente di cotanta insolenza. Il mio plauso va a coloro che insidiano valori discutibili per pura speculazione o per divertirsi goliardicamente con l’indignazione pusillanime dei loro conterranei. Accarezzo idee demenziali e affermazioni grottesche, proteggo con noncuranza la mia estraneità da un novero considerevole di avvenimenti e squadro con attenzione variabile i significati che colano dallo spazio che mi circonda. Odio che l’emisfero sinistro imiti l’emisfero destro e viceversa: certe inversioni di ruolo possono provocare una confusione in grado di obnubilare la propria capacità decisionale.
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