Evado da me stesso e dai miei limiti per cercare un’evoluzione personale che mi permetta di dare un senso alla mia respirazione. Dalle grate della mia cella emotiva vedevo solo una distesa arida senza fine, ma ho deciso ugualmente di calpestare le crepe della terra morente invece di piegarmi alle comodità della galera esistenziale. Con un passo dopo l’altro mi dirigo verso una leggendaria oasi di pace che non ha nome né descrizione. Sudo anni di riflessioni inutili e occasioni perse, ma nell’incostanza del mio cammino alienante scorgo la forza che mi sospinge senza ragioni apparenti e mi rendo conto che in questo processo prevalentemente meccanico si annida una bellezza sconfinata e ancora acerba. Sia a destra che a sinistra vedo gente che traina pesi più grandi dei miei e non riesco a provare compassione reale per le loro fatiche. Non servono le bussole, i libri mentono e in questo caso persino la stella polare risulta inutile. Non riesco sempre a fidarmi di me stesso, ma non ho altri punti di appoggio a parte il mio Ego e ogniqualvolta mi nego un po’ di fiducia cado a terra e faccio incetta di sabbia con gli occhi e con il palato. Non sono sulla via di Damasco. Ormai non mi chiedo più quando e dove arriverò, ma cerco di concentrare tutte le mie forze sul ritmo della mia marcia solitaria e appendo tra cielo e terra tutte le mie domande senza risposta. Sono così vago in questo scritto vacuo. La mia voce pronuncia frasi di incoraggiamento abbastanza convincenti e voglio ascoltarla per un po’ prima di mettere il prossimo segno di interpunzione.
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