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Tuareg urbano e nomadismo emotivo

Prima di addormentarsi si accende un fuoco in mezzo a un deserto sovrappopolato e la mattina seguente lo si abbandona per proseguire verso una meta ignota. Ogni tanto qualcuno ci avvicina e ci falcia gli arti con delle lame emotive; in questi casi bisogna preoccuparsi solo di raccogliere e riattaccare le gambe e le braccia alla meno peggio. Non ci dobbiamo preoccupare del tono della nostra voce e di quello che diciamo: gli altri sono in grado di sentirci, ma non sanno ascoltarci. In certi momenti si resta a terra, disidratati e accecati dal dominio solare mentre un falco si appoggia sui nostri zigomi e in lontananza si propaga l’eco di risate che non ci riguardano. La morte non si scomoda per venirci a prendere e siamo noi che dobbiamo raggiungerla. Ci trasciniamo tra sofferenze composte da fango e ritagli di calendari passati, tra le sabbie mobili dell’immobilità emotiva, lungo le catene montuose dell’indifferenza a cavallo di violenze represse e cancrene affettive. In terra si possono scorgere i teschi di coloro che ci hanno preceduto e hanno resistito meno di noi. Le nostre tuniche si accorciano giorno dopo giorno e ci tolgono il respiro sempre più spesso. In certi giorni possiamo solo stringere i pugni e colpirci ripetutamente la testa fino a svenire. Non esiste un dio né un pantheon reale. Esistono solo idee divine create dai nostri simili e queste idee metafisiche durante i millenni della storia umana hanno assunto una loro volontà; un po’ come se un robot sviluppasse una coscienza. Uomini leggendari di cui nessuno conosce il nome sono arrivati di fronte a una cascata infinita, hanno fissato le idee divine che ho accennato poc’anzi, hanno alzato il loro dito medio, poi si sono denudati e hanno pisciato in bocca al dio di turno prima di gettarsi a volo d’angelo verso acque irraggiungibili.

Francesco

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