Talvolta cerco di analizzare alcuni comportamenti stereotipati per comprendere di più me stesso, ma di tanto in tanto temo di porre involontariamente delle lenti di saccenteria per assecondare giochi dialettici e piaceri vanesi. Mi stanno sul cazzo coloro che cercano di infettare le vite altrui con la propria disillusione e vorrei che costoro portassero la loro carcassa emotiva lontano dalle persone suggestionabili. Provo un po’ di pietà per i vittimisti, ma devo ammettere che in certi momenti l’autolesionismo può essere un passatempo piacevole per ingannare l’attesa di una chiave di lettura più obiettiva. Osservo con sfiducia chi millanta grandi progetti per riempire gli spazi vuoti della sua intimità con lavori e attività intellettuali. Credo che una cultura abbastanza ampia in mano a qualcuno privo di forti esperienze emotive abbia la stessa valenza di un binocolo in mano a un cieco. Mi sembra che gli eccessi riflettano sempre un profondo stato di malessere. È facile confondere i modi esprimersi con i tentativi di mostrarsi artificiosamente agli altri: un painting facciale, qualche look démodé, decorazioni tribali o concetti che cercano goffamente di rappresentare un nichilismo di facciata. Mi annoia chi ostenta la sua fede per compensare gli stenti che appartengono ai meccanismi ignoti della vita e chi imbastisce discorsi apparentemente complessi nascondendone le finalità puramente speculative. Non desidero ingozzarmi con quintali di frasi corrette e asettiche, ma voglio toccare quelle emozioni che scuotono e abbattono qualsiasi pensiero perimetrale. Sono ancora lontanissimo da certi sentimenti e credo che solo la casualità possa ridurre notevolmente la mia distanza emotiva. Le aspettative sono delle assassine e per fortuna non avverto la loro pericolosa presenza.
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