Il mio cane è morto ieri mattina. Era un vecchio pastore maremmano che ha vissuto oltre dieci anni nel mio microcosmo familiare. Quando ho saputo della sua scomparsa ho riso un po’ perché ho pensato alla incredibile successione di eventi negativi che mi ha incalzato per tutto l’anno. Appena mia madre mi ha informato della morte di Kim mi sono detto: “Ecco, anche il cane è crepato, adesso non manca più nulla”. La morte per me è solo un processo naturale ed è per questo motivo che la dipartita del mio caro quadrupede non mi ha scosso. Non provo dispiacere di fronte allo spegnimento di una qualsiasi forma di vita, invece una parte di me si commuove silenziosamente dinanzi alle difficoltà abissali che alcune persone incontrano per dimostrare di essere ancora vive. Chi diventa cenere o giace six feet underground non ha problemi. Spesso i morti assumono più importanza dei vivi e non è raro incontrare chi tira avanti solo in funzione dei propri ricordi. Sono abituato a stare da solo e per me è facile slacciare i legami con il passato senza cancellare la memoria, ma comprendo chi non può fare a meno di crucciarsi nel lutto. Mi chiedo se nell’universo ci sia ancora una traccia di Kim che non sia il suo ricordo né il suo freddo ammasso di pelo, carne e ossa. Kim non abbaierà più e i suoi latrati notturni non rischieranno più di interrompere il sonno della mia vicina. Non ho foto del mio cane a portata di mano, ma ho deciso di accostare a queste parole un’immagine che ritrae il muso mesto di un pastore maremmano.
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