L’ultimo giorno del duemilasei dopo Cristo è incominciato da alcune ore. Ho trascorso dodici mesi difficili durante i quali ho collezionato un discreto numero di fallimenti, ma tra un insuccesso e l’altro ho trovato il tempo di vivere qualche momento piacevole in compagnia di me stesso. Quest’anno ho subito molte batoste morali dalle quali ho tratto insegnamento: il mio carattere si è rinforzato senza indurirsi e alcune brutture della mia personalità hanno cessato di esistere. Non ho impegni per stasera. Cazzo, ieri ho congedato le mie ultime paranoie e adesso non posso più optare per un capodanno all’insegna di riflessioni cupe e stupide. In questo mese di merda ho incontrato persone che non vedevo da molto tempo e mi ha fatto piacere scambiare nuovamente qualche parola con costoro. Ho iniziato a registrare alcune cose per un demo personale che inserirò prossimamente su queste pagine. Il “lavoro” in questione si chiamerà “Prima Di Partire Per Il Giappone” e sarà composto da tre o quattro tracce. Non sono un ingegnere del suono, non sono un musicista, l’equalizzazione per me è un’utopia e la mia cameretta non assomiglia nemmeno vagamente a uno studio di registrazione della Motown Records. Non ho intenzione di avventurarmi nell’underground musicale né di inquinare Internet con l’ennesimo aborto sonoro. Ho voglia di giocare con la voce su alcune basi hip hop che ho scelto meticolosamente. Mi vedo come un bambino che tocca le corde della chitarra del padre jazzista e si meraviglia della cacofonia che riesce a produrre con i suoi tocchi casuali.
La brama ancestrale di un vincolo affettivo mi ha fatto perdere di vista le occasioni che pendono dalle mani della libertà. Posso fare quello che voglio perché al momento non c’è nessuno a cui io debba rendere conto. Le mie parole corrono il rischio di essere fraintese e penso che qualche precisazione sia opportuna: non ho intenzione di perdere la verginità in un bordello e non sono in procinto di aggregarmi a una cosca. Voglio incastonare delle esperienze significative nella mia solitudine per esaltare quest’ultima in tutte le sue forme. Non sono un oracolo part time, ma credo che io abbia ancora molto tempo da spendere per i fatti miei e non intendo trascorrerlo staticamente. Sono rimasto appartato a lungo nei miei pensieri ed è giunto il momento che io metta in pratica ciò che ho imparato. Il mio corpo è pronto, la mia mente possiede abbastanza nozioni per coordinare correttamente i miei movimenti e la voglia di non pormi limiti geografici alimenta questa fase della mia vita. Mi sento bene, sono entusiasta ed emano odori volitivi. Vorrei che il mio attuale stato d’animo potesse contagiare chi è costretto a barcamenarsi nella routine quotidiana. Immagino che il desiderio filantropico che ho appena manifestato sia solo un’espressione della mia contentezza irrazionale e, per quanto irrealizzabile, non credo che si tratti di un proposito sincero. Credo in me stesso e sono pronto ad affrontare altre notti più buie del dovuto. A proposito di oscurità: stasera sono andato in bicicletta fino a Porto Ercole per giocare una partita di calcetto e sono riuscito a tornare a casa tutto d’un pezzo nonostante una caduta senza conseguenze dovuta all’asfalto bagnato
Mia madre ha iniziato a trascorrere intere sere su Internet. Sfoglia avidamente le pagine di alcuni siti per cuori solitari e ogni volta che la vedo di fronte al monitor, inamovibile nella sua postura scorretta e assorta dalle descrizioni e dalle fotografie di persone sconosciute, mi sembra di vivere sei mesi all’anno con una ragazzina grassa e rincoglionita. Uno di questi giorni attaccherò un poster dei Backstreet Boys vicino al suo PC per dare il giusto spessore culturale al suo ambiente di “lavoro”. Mamma tenta di farmi credere che la curiosità sia l’unica ragione alla base del suo interesse per i siti di incontri, ma io credo che lei voglia trovare sul web qualcuno che la scopi. Mi intristisce il modo in cui la tecnologia veicola i sentimenti e mi sembra che ormai abbia avviato un inarrestabile processo di mercificazione della personalità. Credo che il mio punto di vista sulle attuali forme di comunicazione sia un po’ retrogrado. Non riesco ad accettare con facilità il fatto che centosessanta caratteri abbiano l’autorità di decretare la fine di un rapporto tra due persone e mi lascia un po’ perplesso il modo in cui certe emozioni embrionali possano essere delegate agli aforismi famosi e alle icone animate. Quali differenze sostanziali ci sono tra una donna di cinquant’anni che si aggrappa alle telecomunicazioni per risollevare la sua vita privata e una ragazza appena maggiorenne che offre il suo corpo a bande di internauti arrapati per sentirsi desiderata? Mi masturbo troppo per interpretare la parte del bacchettone, ma non posso fare a meno di esternare la mia disaffezione nei confronti dell’uso morboso dei mezzi offerti dal progresso. Più tardi cercherò la felicità con Google.
Fotografia scattata stamane dopo l’ennesima sega. Pensavo alla relazione che intercorre tra la realtà e la mia verginità.
Dammi, dammi quello che non ho mai avuto anche se non mi spetta. Fammi sentire una parte di te. Strappa dalle mie mani la tentazione di pregare un dio umano e non lasciarmi solo. Accompagnami in un posto senza nome: seguimi o lascia che io segua la tue tracce fino alle porte di una nuova vita. Prima che i nostri corpi inizino il loro declino, prima che i nostri desideri diventino la struttura portante della più grande rovina che si possa costruire. Manca il respiro, mancano le parole, mancano le occasioni. Curiamo ed elogiamo i nostri giardini, ma non facciamo nulla per evitare che il loro ingresso venga sbarrato dalle inibizioni. Adoro il collo alto del tuo maglione nero, si intona perfettamente con la banalità dei miei incubi ed è un peccato che io non conosca i tratti del tuo viso. Guardami per sbaglio: sono l’espressione sana del vuoto. Ho controllato anche nelle fessure, ma non c’è nulla nel mio passato né nel mio presente che assomigli a ciò di cui ho bisogno; non ho ancora avuto tempo di rovistare nel futuro, ma ti terrò informata. Guardami un’altra volta per errore: sono la cellula metastatica di una gioventù terminale. Tu chi cazzo sei? Come ti chiami? Dove ti trovi? Non sai chi sono, non conosci il mio nome e non immagini quale sia il mio numero civico. Cerco l’anello di congiunzione tra la mia vita e una vita che non mi appartiene. Non ho un appuntamento, ma sono ugualmente in ritardo. Un piccolo numero di prestidigitazione: riesco ancora a tirare fuori sorrisi spontanei dal mio cilindro rattoppato. A carnevale indosserò una maschera d’ossigeno e per il resto dell’anno tratterrò il fiato.
I telegiornali offrono notizie al polonio e sottolineano le falle della burocrazia italiana. Ultimamente i fatti di cronaca riescono a insinuarsi nella mia attenzione solo tra un colpo di zapping e l’altro. Una settimana fa Bogdan mi ha chiamato dalla Romania e mi ha raccontato la sua ennesima disavventura. Il rumeno in questione ha perso cinquecento euro alla roulette. Prima ha lasciato al croupier di turno i soldi che i suoi genitori gli avevano inviato dall’Italia, ben duecento euro, e poi, nel vano tentativo di rifarsi, si è recato da un suo “amico” dal quale ha ottenuto trecento euro in prestito che, ovviamente, ha perso: un felice Natale d’azzardo. Ogni tanto mi chiedo come sia trascorso questo periodo relativamente festoso per alcune persone che non fanno più parte del piccolo spettacolo della mia vita. Non gradisco molto gli interrogativi che tendono la mano al passato, ma tollero le loro brevi apparizioni nelle prime file dei miei pensieri. Provo un leggero fastidio al ginocchio destro e data la latitanza della fortuna non mi sorprenderei se si trattasse della prima manifestazione sensibile di un tumore. Credo che abbia preteso troppo dal mio fisico nelle ultime due settimane e penso che io debba stare un po’ a riposo per dare modo al mio corpo di riprendersi dalle scorribande che gli ho imposto. Tra un paio di giorni inizierò ad affiancare qualche video girato da me e nuove fotografie alle parole che riverso quotidianamente su queste pagine virtuali. Voglio avvalermi di ogni mezzo per dare una forma alle mie sensazioni: parole, immagini in movimento e fotografie dalle velleità concettuali.
Credo che il dolore interiore sia un’immensa fonte di apprendimento. La sofferenza è una materia prima che abbonda nella mia realtà individuale e cerco di lavorarla con pazienza e attenzione per costruire opere monumentali in onore della mia serenità. In questo periodo funereo non riesco a scorgere nulla di buono attorno a me, ma non mi lascio scoraggiare dalle visioni desolanti che appaiono prepotentemente di fronte ai miei occhi ogni volta che serro lo sguardo. Provo rispetto per il dolore e non ho alcuna intenzione di narcotizzarlo per ridurre l’intensità della sua presenza. La tenerezza della nicotina, i flussi conviviali e solitari degli alcolici, le esasperazioni sensoriali delle droghe, la furbizia dei sofismi, le consolazioni delle religioni, i piaceri del vittimismo e la banalità delle parole di conforto hanno le stesse radici palliative e trovo che non servano a un cazzo. Non ho bisogno di avere un’identità definita in questo mondo anonimo. Non ho segni di appartenenza a qualcosa di tangibile e non sono legato affettivamente a nessuno. Sono un punto interrogativo che sorride. Non ho un tatuaggio che rappresenti in superficie, e superficialmente, una parte di me, ma sfoggio con naturalezza alcune cicatrici intelligibili. La vita è meravigliosa e non credo affatto che sia il dono di una fantomatica divinità imposta a milioni di fantocci di carne. Sono uno sbarbatello che non si è ancora scontrato con l’innominabile forza dell’amore. Continuerò a lottare in mezzo alle inquietudini e alla merda per difendere l’integrità della mia esistenza vuota.
Sono immerso in un altro giorno senza personalità, ma le sfumature monotone delle ore di veglia non costituiscono un grande problema per la mia serenità. Il modo in cui i palazzi recepiscono la luce del sole non mi suggerisce nulla di nuovo. Ho una buona tolleranza al freddo e ogni tanto esco a maniche corte per dimenticare il gelo che attanaglia la mia interiorità. Non c’è nulla che mi intimorisca in questa fase della mia vita e mi chiedo se sia un bene. A volte ho degli scatti d’ira solitari a seguito dei quali le mie nocche colpiscono oggetti di varia forma che puntualmente arrestano la loro caduta sul pavimento della mia stanza. Le fauci bavose delle frustrazioni cercano di sfondarmi lo sterno per uscire allo scoperto. Addomestico il mio lato peggiore con la pazienza, ma in certi momenti la negatività, che si è deposta nel corso degli anni sul fondo delle mie sensazioni, sfugge al mio controllo e assume le sembianze inodori del monossido di carbonio. Sono sotto pressione. Le contraddizioni mi guardano minacciosamente, le mancanze affettive balbettano frasi insensate, alcuni drappelli di rimpianti partigiani esigono un ruolo di primo piano nella mia esistenza e un folle dottore senza scrupoli vuole iniettarmi dosi massicce di stress. La fortuna è una troia che ultimamente si rifiuta di battere dalle mie parti. Un orgoglio positivo sorregge la mia saluta psichica. Sono il mio migliore amico, il mio angelo salvatore. Sono una carezza artificiale che mi fa sentire importante.
Il mio cane è morto ieri mattina. Era un vecchio pastore maremmano che ha vissuto oltre dieci anni nel mio microcosmo familiare. Quando ho saputo della sua scomparsa ho riso un po’ perché ho pensato alla incredibile successione di eventi negativi che mi ha incalzato per tutto l’anno. Appena mia madre mi ha informato della morte di Kim mi sono detto: “Ecco, anche il cane è crepato, adesso non manca più nulla”. La morte per me è solo un processo naturale ed è per questo motivo che la dipartita del mio caro quadrupede non mi ha scosso. Non provo dispiacere di fronte allo spegnimento di una qualsiasi forma di vita, invece una parte di me si commuove silenziosamente dinanzi alle difficoltà abissali che alcune persone incontrano per dimostrare di essere ancora vive. Chi diventa cenere o giace six feet underground non ha problemi. Spesso i morti assumono più importanza dei vivi e non è raro incontrare chi tira avanti solo in funzione dei propri ricordi. Sono abituato a stare da solo e per me è facile slacciare i legami con il passato senza cancellare la memoria, ma comprendo chi non può fare a meno di crucciarsi nel lutto. Mi chiedo se nell’universo ci sia ancora una traccia di Kim che non sia il suo ricordo né il suo freddo ammasso di pelo, carne e ossa. Kim non abbaierà più e i suoi latrati notturni non rischieranno più di interrompere il sonno della mia vicina. Non ho foto del mio cane a portata di mano, ma ho deciso di accostare a queste parole un’immagine che ritrae il muso mesto di un pastore maremmano.
Era una giornata fredda e lui si trovava nella sua grande casa a fantasticare sul futuro. Per le strade c’era solo qualche anziano che come lui teneva a braccetto la solitudine natalizia. Le nuvole erano le solite e nessuno ci faceva caso. Era un ateo, un miscredente, un bestemmiatore, ma desiderava ardentemente il calore umano che gli era sempre mancato. Per ingannare il tempo di quell’ennesimo giorno desolato si era messo a scrivere un breve racconto in terza persona e, tra una parola scritta e un pensiero fulminante, dondolava lo sguardo da una parte all’altra della sua stanza silenziosa. Udiva la quieta allegria dei vicini e quelle voci pacatamente festose lo costringevano ad abbassare lo sguardo verso il suo vuoto. Credeva che qualcuno gli avesse sottratto la sua quota di felicità, ma in cuor suo riconosceva gli sbagli che aveva commesso e con i quali fino a quel momento si era condannato a vivere un’esistenza cinica, e sapeva perfettamente che solo la sua volontà gli avrebbe consentito di divellere le radici della tristezza. Cercava continuamente coraggio nei pertugi della sua intimità per affrontare gli innumerevoli spettri che popolavano le sue stagioni sterili. Non c’era nessuno che lo affiancasse nella cavalcata verso un nuovo scontro con se stesso. Si era abituato a non condividere il peso delle proprie sventure e portava il suo fardello con inutile dignità, ma sapeva di non essere l’unico uomo a battagliare per la propria rivincita. Era nato sconfitto come molti dei suoi simili, ma non aveva intenzione di vegetare in un destino che aveva la forma di una carcassa concava. Questi pensieri lirici aleggiavano nella sua mente da molto tempo ed emergevano fragorosamente ogni volta che si sentiva oppresso. Quella vigilia non lo riguardava e per lui non rappresentava nemmeno un banco di prova, ma spesso si era auspicato di trascorrerla laicamente nelle spire di un abbraccio trascendentale.