Ieri sono stato nella mia stanza a riposare per l’intera giornata e ne ho approfittato per fare un tuffo nel passato. Ho ascoltato per tutto il pomeriggio “Live Era ’87-’93”. Il doppio album in questione è una raccolta di pezzi dal vivo dei Guns N’ Roses a cui sono particolarmente legato perché ha accompagnato buona parte della mia adolescenza. Quando ero uno sbarbatello tentavo di imitare le linee vocali di Axl Rose e alla fine delle mie sessioni di mitomania mi ritrovavo puntualmente con la gola secca. Voglio elencare qualche ricordo riguardo ai Guns N’ Roses: il cilindro di Slash, l’assolo di “November Rain”, la voce isterica di Axl Rose, il testo di “Estranged”, la bellezza acustica di “Patience”, la goliardia di “Paradise City” e la chiusura stupenda di “Rocket Queen”. I miei gusti musicali sono cambiati radicalmente nell’arco degli anni, ma alcuni suoni legati a particolari momenti della mia vita sono sopravvissuti alle variazioni del tempo. Sono felice che i miei pregiudizi adolescenziali mi abbiano sempre tenuto distante dalla musica italiana. Come sarebbe stata la mia vita se al posto di “Use Your Illusion” avessi acquistato un album dei Nomadi, o, peggio ancora, dei Modena City Ramblers? La mia stupida esterofilia si manifesta anche nelle musica, ma sono troppo gretto per stigmatizzarla. Spero che il mio udito possa continuare ancora per molto a importare sensazioni pentagrammate nelle mie province cerebrali. Probabilmente quando Bob Dylan busserà alle porte del paradiso Nicko McBrian non sarà più in grado di suonare heavy metal con un solo pedale e io sarò ancora alle prese con le mie difficoltà esistenziali.
Ieri mattina ho appoggiato il culo sopra la mia bicicletta e mi sono diretto verso Porto Ercole. Avevo intenzione di fare il giro del Monte Argentario, ma a un certo punto ho trovato la strada interrotta e sono stato costretto a tornare indietro. Tra una pedalata e l’altra ho pensato molto e alla fine della giornata mi sono ritrovato con un po’ di amarezza in più nel corpo. Sono più sereno rispetto a ieri, ma non sprizzo gioia da tutti i pori. Le biciclettate mi sfiancano, ma almeno mi tengono occupato. Sono ancora in preda a una forte stanchezza. Mi sono addormentato alle tre di ieri pomeriggio e mi sono alzato verso mezzanotte, poi mi sono riaddormentato un paio di ore dopo e mi sono risvegliato alle dieci di stamani. Devo darmi una regolata e devo tentare di cambiare i miei ritmi. L’ultima settimana per me è trascorsa molto velocemente e mi sembra che il tempo transiti rapidamente attraverso la mia esistenza. Non ho ancora capito come abbia fatto ad arrivare così presto a ventidue anni e non ho intenzione di scoprirlo. Il mio tempo è uno scattista. Ultimamente arranco tra patimenti e disagi, ma penso che a breve riuscirò a venirne fuori. Novembre non è mai stato un mese favorevole per la mia psiche, ma non lo abolirei dal calendario. Credo che oggi mi dedicherò totalmente al riposo per riprendermi dalle fatiche e dalle tribolazioni degli ultimi giorni, anche se la tentazione di pedalare è forte. Non prevedo nulla di buono per l’inverno, ma voglio ugualmente buttarmi a capofitto nel nuovo anno. Prima o poi vedrò di nuovo l’altra faccia della medaglia.
In queste ore battaglio contro i calcoli errati e le coincidenze maledette. Sono stanco. I lunghi giri in bicicletta degli ultimi giorni hanno unito in matrimonio il mio corpo e la spossatezza. Non riesco a dormire e la mia vista è un po’ affaticata. Le mie condizioni fisiche e morali non sono delle migliori, ma ho affrontato momenti peggiori. Durante questi periodi nefasti mi faccio più seghe del solito e mangio qualche barretta di cioccolato al latte. Lo stress tiene sotto pressione le mie tempie, tuttavia non temo per il mio equilibrio psicofisico. Devo scalare ancora qualche giornata sinistra prima di iniziare a recuperare le forze. La mia serenità non ha fondamenta solide e spesso devo ingegnarmi per evitare che crolli su se stessa. Non ho a disposizione le sensazioni di cui abbisogno e cerco continuamente di farne a meno. Quando gli eventi offuscano le ventiquattrore ricorro alle riserve del mio orgoglio per rivendicare la mia anonima appartenenza alla vita. Ho imparato a prevenire gli spasmi emotivi grazie alla casuale osservazione di alcuni afflitti cronici. Sono lucido anche in mezzo ai periodi parossistici e non ricorro ai palliativi per edulcorare la realtà. Non ho un posacenere da riempire per stabilizzare il mio sistema nervoso né voglio averlo, non ho polveri magiche da inalare né voglio riceverle sotto forma di campione gratuito da un pusher controcorrente. Sul mio cellulare non c’è il numero di qualche confessore estemporaneo. Riesco a farmi capire solo dal mio lato razionale e trovo molto conforto nei miei monologhi parzialmente insensati. Ho bisogno di macinare chilometri per seminare le angosce che mi stanno alle calcagna. Tra qualche minuto uscirò con la mia mountain bike e vagherò per ore lungo le strade della mia zona con le cuffie incastrate nelle orecchie, il volume a palla, o quasi, e tanta voglia di prendere a calci nel culo l’inquietudine.
Tre ragazzi ordinari passeggiano insieme lungo le strade della loro cittadina. Diego è il capo del trio e la sua leadership è dovuta alla pistola di ordinanza che ha sottratto al padre. A un tratto Massimo, un altro membro del pericoloso gruppetto, lancia una proposta ai due compagni: “Ragazzi, andiamo in campagna e spaventiamo una famiglia in una casa isolata!”. Luca, il più giovane dei tre, annuisce all’amico con un ghigno che mette in mostra il giallume dei suoi denti storti. I tre figli di puttana salgono a bordo dell’Opel Corsa della madre di Diego e si dirigono verso l’uscita della cittadina. I centoventi battiti per minuto di un pezzo house rimbombano nell’auto e accompagnano i sorsi di Heineken e le boccate di fumo. Gli aspiranti delinquenti si apprestano a fottersi con le proprie mani. Dopo dodici chilometri l’auto si ferma vicino a una villetta isolata. Adesso la musica è appena percettibile, i sedili portano i segni della frenesia dei protagonisti e gli sguardi arrossati annunciano uno spettacolo di violenza frammista a sadismo. I tre scendono dall’auto, Diego mette il colpo in canna alla sua M9 e si incarica di suonare il campanello della villetta. Dopo alcuni secondi un viso femminile spunta da dietro una tenda e osserva con stupore le figure dei ragazzi. All’improvviso Massimo prende un sasso da terra e lo tira contro una finestra. In un primo momento i tre si mettono a ridere e subito dopo scavalcano a turno il cancello della casa. Diego non esita a sparare in testa al setter che si avventa contro di lui. Gli altri due sfondano la porta della veranda ed entrano nella casa. Poco dopo Diego raggiunge i compagni all’interno dell’abitazione e nota che una donna a carponi tenta di comporre un numero sul proprio cellulare. Anche Luca nota la donna e non perde tempo: si lancia contro di lei e sferra un calcio violentissimo al suo mento. La donna stramazza a terra e il cellulare si frantuma contro una parete. Non pago, Luca inveisce contro la donna: “Succhiami il cazzo, troia”. Massimo non si cura della violenza dell’amico e si avvia verso la cucina per prepararsi un panino. Diego sale al secondo piano per controllare le altre stanze della casa. Luca palpeggia la sua vittima che nel frattempo ha perso coscienza: la donna ha poco meno di quarant’anni, un seno abbondante ma un po’ cadente, una linea invidiabile e una chioma mora che mette in risalto la sua fisionomia mediterranea. Diego trova un bambino in una stanza del secondo piano. Il piccolo non sembra intimorito e probabilmente non si è accorto di nulla. Diego osserva il bambino e il bambino osserva Diego. Il bimbo sorride e saluta l’estraneo con la manina. La voce di uno dei due ragazzi che si trovano al piano di sotto deflagra improvvisamente: “Diego, Diego, dai dio cane, scendi!”. Diego preme la pistola contro il naso del bambino e poi spara senza guardare. Dopo il colpo Massimo grida: “Diego, che cazzo stai facendo? Che cazzo stai facendo?”. Mentre Diego scende le scale Luca abbassa i jeans, denuda un po’ la donna e inizia a sborrare sul suo petto. Come se non fosse successo nulla Massimo si rivolge a Luca: “Oh, ma stai sempre a menartelo”. La banda decide di andarsene. Massimo getta il suo panino, Luca si tra su i jeans e Diego nasconde la pistola sotto la camicia. I ragazzi tornano nella loro cittadina verso le nove di sera. L’Opel Corsa si ferma davanti al Jolly Bar. I tre si guardano e poi scendono. Massimo va a comprare un pacchetto di sigarette, Luca va a pisciare e Diego resta vicino all’auto. Un carabiniere arriva alle spalle di Diego e gli chiede i documenti. La tragica vicenda del pomeriggio ha messo in allerta le forze dell’ordine e sono scattati subito controlli a tappetto e posti di blocco. Diego non risponde al militare e si allontana un po’ senza tuttavia mostrare l’intenzione di fuggire. Il carabiniere metta mano alla pistola, ma Diego è più veloce e si spara in testa. Appena Massimo e Luca odono il colpo si precipitano in strada e vedono subito l’amico morto sotto un’impalcatura illuminata da una luce intermittente. Dopo una settimana Massimo e Luca si incontrano al solito posto sotto un cielo pulito: un po’ di luce scontrosa illumina i corrimano in legno sopra ai quali siedono in un equilibrio precario le ombre delle ombre.
L’industria del male esporta acqua di Colonia nelle terre conquistate dagli stati democratici e conclude trattative in narcodollari con le organizzazioni capeggiate dai bucanieri moderni. Un uomo senza scrupoli si lava i denti prima di mentire sulla sua sieropositività e presenta il suo inganno all’ingenuità di una pulzella. Sul fronte opposto alcune frangette celano piani architettati a pennello per eludere il raziocinio maschile. I sistemi immunitari alzano le barricate contro le somatizzazioni e attendono con timore il passaggio della stanchezza. A volte sembra che giornate estremamente cupe e sensazioni glaciali si diano appuntamento per ottenebrare l’esistenza di un essere umano. Le incertezze sono delle bagasce armate e ogni tanto serve il polso di un soldato di ventura per evitare che si moltiplichino più del necessario. Conosco le trappole che provengono dalle fabbriche del malessere e ho imparato a renderle inoffensive, ma provo un po’ di compassione per chi non ne è ancora venuto a capo. La zona intracerebrale a volte diventa uno spaventoso campo di battaglia dove convinzioni opposte cadono morenti. Forse nella bellicosità platonica si trova la chiave del divenire umano. Ogni tanto mi sembra che le mie parole pecchino di pragmatismo e si perdano nei meandri di elucubrazioni insulse, mentre a tratti mi sembra che io sia troppo duro nei confronti dei miei pensieri. Credo che la realtà sia la bilancia per i propri giudizi, ma penso che la sua precisione dipenda dalla capacità di interpretarla. L’inizio di questo breve scritto differisce molto dalla sua conclusione e questa diversità mette in luce il simpatico disordine che si trova sotto la mia scatola cranica.
Stamane sono uscito con duecento euro in tasca e sono tornato a casa con una mountain bike con la quale ho percorso circa quindici chilometri prevalentemente in piano. In alcuni tratti la flatulenza di Eolo ha rallentato le mie pedalate. Dopo l’acquisto della bicicletta ho lasciato il centro di Orbetello e mi sono diretto verso Ansedonia dove ho fatto una breve pausa e una lunga pisciata. Sono rimontato in sella dopo alcuni minuti, ho attraversato agiatamente la pineta della Feniglia e poi mi sono diretto verso Porto Ercole dove ho smesso di pedalare per non prendere troppa velocità lungo la discesa che porta al centro del paese. L’atmosfera mattutina di Porto Ercole mi ha lasciato una profonda sensazione di mestizia. Ho visto per lo più vecchie signore dedite alla spesa e alla vedovanza. Ho ripreso a pedalare in prossimità di una salita un po’ ripida e ho proseguito fino alla cosiddetta “Acqua Dolce” prima di imboccare una strada in discesa per tornare al centro di Porto Ercole. Dopo pochi minuti mi sono lasciato alle spalle le sagome delle paranze e sono rientrato nel dominio orbetellano con somma soddisfazione per il rodaggio delle mie due ruote. Avevo dimenticato quanto fosse divertente andare in bicicletta. Forse riprenderò a correre durante la primavera e per i prossimi mesi userò principalmente la mountain bike. Sono in piedi dalle diciassette di ieri e inizio ad avvertire un po’ di stanchezza, ma voglio cercare di non addormentarmi prima delle nove di sera per evitare di dormire durante il giorno. Tra poco mi farò una doccia e pranzerò con piacere di fronte alle tragedie mediatiche.
Le eruzioni vulcaniche illuminano le adunanze notturne dei fuggiaschi. Zampilli incandescenti penetrano la terra come spermatozoi pigri e lasciano fievoli scie che lambiscono le ombre in movimento. Fuochi enormi divampano attorno alle alture che un tempo ospitavano lo studio dei corpi celesti. I bambini osservano con stupore le fiamme e l’agitazione degli adulti. Gli scivoli di magma disegnano motivi asimmetrici mentre alcune emozioni oblique attraversano la popolazione inerme e danno vita ad aneddoti futuri. I movimenti viscerali della natura strabiliano gli esseri senzienti. Monologhi collettivi commentano gli eventi con inesattezze popolari, menti affette da manie di protagonismo partoriscono teorie inappropriate per spiegare ciò che è assiomatico e sacerdoti di campagna interpretano i fatti con la solita retorica della loro religione fallace. Le bolge si muovono confusamente verso le spiagge per bivaccare in attesa che un uomo sia disposto a fingersi forte per rasserenare i propri simili. In mezzo a sorrisi agnostici evaporano preghiere atte a implorare il perdono divino. Timori medievali trafugano la serenità dalle anime più suggestionabili e costringono individui biechi a simulare la fede in mezzo ai simulacri. La corsa agli armamenti monoteistici permette all’uomo di guadagnare tempo sull’inquietudine. La forza della ragione è troppo debole per placare l’energia sprigionata dall’ignoto. Gli schiavi di un dogma atavico cercano le ragioni delle catastrofi naturali sopra il palmo del loro dio artificiale.
Bambini, ricordatevi di mangiare le arance meccaniche prima di picchiare il vostro compagno Down. Una professoressa è stata scoperta in atteggiamenti equivoci con alcuni studenti ed è stata sospesa. Se avessi avuto un’insegnante simile la mia sessualità ne avrebbe giovato e forse oggi non mi limiterei a sborrare davanti alle fotografie di modelle procaci senza nome. È stata raddoppiata la quantità di cannabis per uso personale e sembra quasi un invito a fumare per non pensare alla confusione politica che impera sulla penisola italiana. Sono felice per i tossici occasionali. Il Vaticano mostra i suoi isterismi nei confronti della posizione assunta dalla Chiesa anglicana riguardo all’eutanasia per i neonati con gravi handicap. Insomma, per i boss della Chiesa cattolica un dogma religioso è più importante della sofferenza di un essere umano. “Avvenire” ha criticato i comici che ironizzano su Joseph Ratzinger, ma penso che la satira sul Papa non sia altro che una forma di pubblicità a favore della presunta tolleranza cattolica. Un po’ di ritrosia codarda sembra che impedisca alla comicità di sviluppare battute e imitazioni sulle altre religioni e credo che nel caso dell’Islam questa riluttanza dipenda dal timore di eventuali ritorsioni e invece per quanto concerne la cultura ebraica penso che le possibili accuse di antisemitismo tengano a freno le velleità satiriche di alcuni artisti. Le varie forme di inibizione provocate dalle altre fedi fanno concentrare la comicità sul cattolicesimo e mi sembra che alla fine alcuni comici finiscano per fare del proselitismo senza l’avallo del Vaticano.
Ieri sono uscito di casa alle nove di sera e sono tornato verso le due di notte. Ho percorso circa quattordici chilometri a piedi (tra andata e ritorno) per prendere un cellulare in una casa di campagna. Mia madre si era offerta di accompagnarmi, ma ho preferito immergermi nel ruolo di un messaggero nipponico diretto a Edo. Ho stuprato la notte molte volte, ma, nonostante la mia esperienza, i rumori intestinali della natura abbuiata sono riusciti a farmi provare qualche brivido. Durante il cammino ho assistito alla noiosissima sfilata dei miei pensieri e per dare un po’ di verve ai miei passi ho irrigato la vegetazione con spruzzi di urina. Quando ho transitato davanti ad alcune case isolate ho temuto che qualcuno volesse affacciarsi per spaventarmi. Dopo quasi due ore ho raggiunto la mia destinazione e prima di ripartire mi sono concesso una breve pausa. Sulla via del ritorno ho utilizzato la radio FM del cellulare per rendere meno monotoni i miei passi. Ho ascoltato un po’ di musica pop e una discussione blanda su Napoli e sul cosiddetto ‘O Sistema che l’attanaglia. Da un TG radiofonico ho appreso dello sciopero degli avvocati e ho immaginato subito il loro grido unanime, forte e fiero: “Avvocati di tutto il mondo, unitevi!”. Lungo la mia strada non ho incrociato anima viva e prima di tagliare il traguardo della porta di casa ho attraversato i fotoni di una volante dei carabinieri. Tutto sommato ho trascorso una notte piacevole con me stesso, come non capitava dalla notte precedente.
Tre notti fa ho avuto il piacere di guardare questo film atipico. “84 Charlie Mopic” è stato girato come un documentario, ma non lo è. Credo che la vera protagonista di questa storia sia la cinepresa del cameraman che segue un esiguo gruppo di soldati statunitensi impegnati in Vietnam, infatti le riprese dell’intero film sono state effettuate come se il cineoperatore si trovasse veramente in mezzo a delle azioni di guerra. Ho apprezzato molto lo stile utilizzato da Patrick Sheane Duncan (il regista del film) e spero di rimediare qualche altra opera realizzata allo stesso modo. Il ritmo tra una scena e l’altra non cala mai fino alla fine e mette in mostra il perfetto equilibrio tra momenti di azioni crude e riflessioni nichilistiche che si alternano per un’ora e mezza. Ho notato alcune analogie tra “I Guerrieri della Palude Silenziosa” e “84 Charlie Mopic”, ma preferisco decisamente il secondo. Tra i vari personaggi mi ha colpito molto il sergente O’Donigan, OD per i suoi compagni e per gli spettatori. OD è un afroamericano duro, poco propenso a parlare, ma con una forte attitudine al comando, infatti è lui che guida il gruppo formato da Cracker, Pretty Boy, Hammer, Easy, il sottotenente Drewry e ovviamente Mopic. Cito un passaggio del film in lingua originale che mi ha strappato una risata: “Jingle bells, mortar shells, VC in the grass, you can take your Merry Christmas and stick it up your ass”. Una nota: “VC” sta per vietcong. Negli ultimi giorni ho scartato diversi film poliziotteschi e dato che non ne posso più della leggendaria faccia di Maurizio Merli credo che sposterò il mio interesse cinematografico verso i film di guerra.