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A un detenuto ignoto

Ricordi quando i muscoli del tuo viso si sono contratti per non dare spiegazioni? Ti guardavi allo specchio, ma non riuscivi a vederti e sembravi un morto che respirava. Ho assistito di nascosto ai tuoi monologhi serali di fronte all’abbazia del rancore sessista. Molti prima di te hanno interpretato la stessa tragedia e qualcuno ha persino accettato l’invito ingannevole della vita a negare se stessa. Io sono Francesco e non ho mai saggiato la simbiosi intima che è evasa dalla tua esistenza. Non ho nemmeno una parola di conforto per te e anche se ne avessi una sola mi rifiuterei di utilizzarla. Tu mi ascolti, uomo triste, e solo per questo motivo indirizzo parole vuote verso la tua prigione emozionale. Non cerco verità nascoste né tento di appropriarmi dei tuoi segreti. Due forze preesistenti alla nascita dell’universo si inseguono nelle nostre viscere e ogni volta che noi le chiamiamo per nome ci sembrano scontate. Sono un disabile sentimentale, ma mi appassionano i drammi passionali. Lo ammetto: il mio voyeurismo è più patetico del fanatismo stereotipato che sorregge la dedizione decennale con la quale una casalinga segue la sua telenovela preferita. Viaggio con la fantasia alla ricerca di succedanei affettivi e ogni tanto ne trovo qualcuno. Le grinfie della passività tentano di ghermire i principi attivi della bellezza e il tempo, come sua abitudine, osserva con sussiego atarassico il duello tra la cosicenza e gli impulsi. Ti saluto uomo senza nome e mi auguro che un domani tu possa uscire vivo dalla vita.

Francesco

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