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La solita gita

Cammino da solo in mezzo a campi irrigati da getti di disperazione umana. Scorgo in lontananza i fuochi delle tribù autoctone e odo il loro inno alla morte. Mi trovo nella zona più remota del mio inconscio e tento di farmi strada tra le atrocità della mia vita precedente e le voci delle mie paure attuali. Sono un individuo anonimo con una carta d’identità. Le mie parole rimbalzano nel tempo e lasciano scie di mestizia evanescente prima di cadere nel silenzio della mia fisicità. Il mio nomadismo interiore è determinato da un novero consistente di assenze prenatali. Sotto lo sterno, tra la polvere e le ragnatele, nascondo i ritratti pallidi e indifferenti di persone che non ho mai visto. Tra alcuni anni la forza unidirezionale del tempo mi trascinerà di fronte all’epitaffio di mia madre, sempre che una fine prematura non mi ghermisca. La stanchezza mi scuote con brevi tremolii e oprrime il mio volto con le sue mani. Ho bisogno di riposare per allaciare di nuovo i rapporti con la lucidità. Lo scrivo con una punta di autolesionismo: mi piace questo periodo di siccità emozionale. Il mio vuoto si fa sempre più grande e se fossi suo padre sarei compiaciuto della sua crescita. La scrittura è un passatempo divertente, ma dubito che possa verbalizzare certi stati d’animo senza intaccarne l’autenticità. Mi crogiolo nell’ambivalenza delle mie sensazioni e attendo che la mia ricerca interiore dia i suoi frutti. Appongo gli ultimi segni di interpunzione e mi preparo per una sega veloce prima di inseguire il sonno.

Francesco

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