A causa della metempsicosi, questa parola un po’ cacofonica e dal significato trascendentale, ho chiesto più volte a delle pareti mute se la mia nascita sia stata preceduta da una mia morte. I cori tombali del silenzio domestico non mi hanno mai dato una risposta. Nell’arco del mio primo ventennio, così omogeneo nella sua quotidiana alienazione, si sono alternati in me dubbi atavici legati alla metafisica e combustioni di superficialità alimentate da una tirannica imposizione degli usi e dei costumi. Una ridda di timori ingiustificati ha accompagnato il mio ruolo di piccolo discepolo dell’isterismo didattico. Ho solo vaghe reminiscenze delle lezioni di grammatica e dell’uso delle parentesi quadre in algebra, ma ricordo nitidamente gli inutili strali di alcuni insegnanti e la bassezza comprovata di altri. Ho utilizzato i libri di testo come pagine bianche sulle quali esaltare figure mediatiche per proteggere la mia attenzione dalla frustrazione deleteria dei docenti saccenti. Già allora era lontana la belle époque dell’infanzia e già allora la pronuncia del suo tempo suonava come nostalgia di uno spazio onirico. Innumerevoli domande sulla morte hanno sodomizzato la mia serenità durante la mia fase prepuberale e hanno favorito lo sviluppo di un mio disinteresse adolescenziale nei confronti delle altre forme di vita senzienti. Se la mia mente fosse una scrittrice citerei il passaggio di uno dei suoi libri: “Iniziai a vedere cose nuove quando la fiammella cinica si spense e di conseguenza uscii dalla caverna, ma in quel momento mi accorsi che le carovane erano già lontane”.
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