Qualche ora fa ho commesso un errore. Sotto l’effetto di una leggera impulsività ho pronunciato parole insensibili. Non ho una scusa valida per ciò che ho detto e non voglio cercarne una. L’ho scritto spesso e lo ripeto ancora una volta: per me le parole non hanno molto peso se non sono confermate dai fatti. Tuttavia comprendo chi non la vede come me e capisco perfettamente la pericolosità dei proiettili verbali. Probabilmente la mancanza di un dialogo costante con i miei simili mi ha abituato a non frenare le mie esternazioni. Alle volte le mie parole assumono connotati polemici e perversi a causa del mio impeto ed è inevitabile che spesso il significato dei miei discorsi venga travisato, ma questo non è uno di quei casi. Il mio errore mi ha regalato attimi di angoscia e di riflessione cupa, ma alla fine credo di essere riuscito a porre rimedio. Queste righe virtuali assomigliano più a un verbale redatto da un carabiniere che a una serie di descrizioni tanto criptiche quanto intime. La dolcezza rustica di J. è direttamente proporzionale alla sua comprensione e ogni giorno che passa spero che gli intrecci del tempo mi leghino a lei per sempre. La mia testa gira su se stessa. Sono stanco e un po’ affranto, ma allo stesso tempo riesco a trovare refrigerio nella mia serenità alienante. Ho bisogno di slacciare la zavorra della mia inesperienza per evitare di toccare la superficie dell’abisso emozionale. Voglio che Rommel torni dal mondo dei morti per comandare le grandi manovre del mio carattere. Dalle mie parti spirano di nuovo venti di cambiamento e spero che questa volta non abbiano la stessa evanescenza di quei fuochi fatui che ho acceso troppe volte.
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