Una riflessione ascetica accarezza le mie tempie. Il pensiero della rinuncia a ogni sorriso che non sia il mio riesce ad allietare la mia stanchezza mentale. Attorno a me vedo solo terra bruciata sulla quale la mia serenità alienante passeggia con noncuranza. Le mie giornate trascorrono tutte uguali: se fosse possibile ritrovare il tempo perduto a me basterebbe un solo identikit. Vorrei unirmi a ciò che mi manca per respirare un’aria diversa, per innescare un cambiamento naturale, per riconciliarmi con sensazioni che ho vissuto da spermatozoo. Quando penso alle lacune della mia intimità mi sembra che la circolazione sanguigna rallenti e che nel petto si formino dei vuoti d’aria. Non riesco ad abbandonare la castità del mio corpo e dei miei sentimenti a causa della mia ignoranza affettiva. Il disagio che avverto nella parte più profonda di me non ha nulla a che fare con la semplice fisicità, di cui non ho esperienza, né con la semplice intesa, di cui ho poca conoscenza. Pensieri cupi martellano la mia ansia di vivere e tentano di farmi credere che tutt’intorno ci sia solo una inutilità perenne. Non riesco ad associare il sabato sera al divertimento né ad alcuna forma di goliardia. Al di là dei miei stati melanconici si trova sempre un sorriso eretto da una fantasia sempiterna. Chissà quanti piccoli ghigni usciranno dalla mia bocca avvizzita quando, ripensando alle mie parole di giovane inesperto, inizierò a vedere le ultime luci del vespro. Mi piace porre punti e virgole nella descrizione del mio handicap esistenziale. Nei momenti di luce e durante gli stadi più intensi di oscurità, mi allieta pensare alla finitezza di ogni cosa.
A causa della metempsicosi, questa parola un po’ cacofonica e dal significato trascendentale, ho chiesto più volte a delle pareti mute se la mia nascita sia stata preceduta da una mia morte. I cori tombali del silenzio domestico non mi hanno mai dato una risposta. Nell’arco del mio primo ventennio, così omogeneo nella sua quotidiana alienazione, si sono alternati in me dubbi atavici legati alla metafisica e combustioni di superficialità alimentate da una tirannica imposizione degli usi e dei costumi. Una ridda di timori ingiustificati ha accompagnato il mio ruolo di piccolo discepolo dell’isterismo didattico. Ho solo vaghe reminiscenze delle lezioni di grammatica e dell’uso delle parentesi quadre in algebra, ma ricordo nitidamente gli inutili strali di alcuni insegnanti e la bassezza comprovata di altri. Ho utilizzato i libri di testo come pagine bianche sulle quali esaltare figure mediatiche per proteggere la mia attenzione dalla frustrazione deleteria dei docenti saccenti. Già allora era lontana la belle époque dell’infanzia e già allora la pronuncia del suo tempo suonava come nostalgia di uno spazio onirico. Innumerevoli domande sulla morte hanno sodomizzato la mia serenità durante la mia fase prepuberale e hanno favorito lo sviluppo di un mio disinteresse adolescenziale nei confronti delle altre forme di vita senzienti. Se la mia mente fosse una scrittrice citerei il passaggio di uno dei suoi libri: “Iniziai a vedere cose nuove quando la fiammella cinica si spense e di conseguenza uscii dalla caverna, ma in quel momento mi accorsi che le carovane erano già lontane”.
Da alcuni giorni a questa parte un po’ di insicurezza illumina i miei risvegli. La gioia di un sentimento embrionale mi accarezza con dolcezza, ma allo stesso tempo l’ansia di questa sensazione meravigliosa mi schiaffeggia senza tregua. Non riesco a orientarmi nei giardini dell’affetto e non ho ancora idea di come si sfondino le porte dell’amore. La mia mano sinistra non può aiutarmi a comprendere le dinamiche più profonde della passione, ma ha la facoltà di consolarmi con la sua saggezza masturbatrice. I miei pensieri ruotano da molto tempo attorno a J. e ogni giorno confermano la mia incapacità di concretizzare ciò che nasce nel più alto strato dell’astrazione. Mi rendo conto di come per me sia indispensabile accettare l’eventualità che l’intimità dei miei bisogni e delle mie sensazioni possa non trovare uno sbocco durante l’arco della mia vita. Se fossi un sofista affermerei che è la natura a decidere durante la fase prenatale chi può vivere certe emozioni e chi può solo farsene un’idea con un cannocchiale opaco. Quella che ho appena scritto è una scusa comoda e fatalista alla quale non credo. Penso che i geni contino qualcosa nelle possibilità di raggiungere certe vette emozionali, ma penso che lo sforzo maggiore provenga dal carattere di un individuo e dal livello di trasparenza della sua coscienza. In questo preciso istante alcune persone stanno consumando le loro infatuazioni con sinergie erotiche e altre stanno confermando la stabilità granitica dei loro legami. Talvolta soggetti di ambo i sessi si lasciano cadere tra le braccia di malinconie longeve per sfuggire dalle rotture dei loro romanticismi. Mi piace leggere Kierkegaard, ma non voglio vivere la sua eterna adolescenza. Lascio la conclusione di queste righe a una citazione che mi accompagna da alcuni giorni: “Sapessi che dolore l’esistenza, che vede nero dove nero non ce n’è”.
Qualche ora fa ho commesso un errore. Sotto l’effetto di una leggera impulsività ho pronunciato parole insensibili. Non ho una scusa valida per ciò che ho detto e non voglio cercarne una. L’ho scritto spesso e lo ripeto ancora una volta: per me le parole non hanno molto peso se non sono confermate dai fatti. Tuttavia comprendo chi non la vede come me e capisco perfettamente la pericolosità dei proiettili verbali. Probabilmente la mancanza di un dialogo costante con i miei simili mi ha abituato a non frenare le mie esternazioni. Alle volte le mie parole assumono connotati polemici e perversi a causa del mio impeto ed è inevitabile che spesso il significato dei miei discorsi venga travisato, ma questo non è uno di quei casi. Il mio errore mi ha regalato attimi di angoscia e di riflessione cupa, ma alla fine credo di essere riuscito a porre rimedio. Queste righe virtuali assomigliano più a un verbale redatto da un carabiniere che a una serie di descrizioni tanto criptiche quanto intime. La dolcezza rustica di J. è direttamente proporzionale alla sua comprensione e ogni giorno che passa spero che gli intrecci del tempo mi leghino a lei per sempre. La mia testa gira su se stessa. Sono stanco e un po’ affranto, ma allo stesso tempo riesco a trovare refrigerio nella mia serenità alienante. Ho bisogno di slacciare la zavorra della mia inesperienza per evitare di toccare la superficie dell’abisso emozionale. Voglio che Rommel torni dal mondo dei morti per comandare le grandi manovre del mio carattere. Dalle mie parti spirano di nuovo venti di cambiamento e spero che questa volta non abbiano la stessa evanescenza di quei fuochi fatui che ho acceso troppe volte.
È notte e sono soddisfatto di me stesso. Fino a questo momento non ho mai fatto granché e non so se le cose cambieranno, ma non posso fare a meno di esternare per l’ennesima volta il mio piacere di vivere. Per me la vita è una gioia moderata che qualche volta sfiora la sublimità. Alcuni pensano che io viva chiuso in una grande tristezza, ma non critico queste bocche indiscrete perché sono consapevole del vizio delle loro impressioni. Chi mi osserva dall’esterno crede che la mia vita sia terribile, ma come ho già scritto non biasimo costoro, d’altronde non si può pretendere che qualcuno apprezzi un Rembrandt a cinquanta metri di distanza. Mi faccio scudo del silenzio e del sarcasmo per evitare le insidie delle frustrazioni altrui. Sto lontano dai sorrisi di cui non mi fido, dalle grida adolescenziali, dalle recite degli adulti mancati, dalla seriosità di alcuni saltimbanchi e da quei pensieri erotici che non mi permettono di masturbarmi. Sono lontano da tutto e da tutto il resto, ma mi tengo informato su ciò che accade attorno a me. Sono trascorsi molti mesi da quando ho deciso di tenere una traccia quotidiana dei miei pensieri e dopo tutto questo tempo mi rendo conto di come la mia serenità alienante continui ad avanzare verso il nulla. Da quasi un anno nella mia vita è comparsa una piccola santa che mi pensa e io la contraccambio ma non mi sento ancora pronto per lasciare il mondo fatato delle seghe. Da una parte c’è il cesso e dall’altra un cartello che recita: “Proseguire di qua per crescere”. Forse la mia razione quotidiana di parole è terminata. Tra poco mi farò una doccia, poi guarderò un po’ di TV bevendo succo di frutta e infine tenterò di entrare nel sonno prima che le luci del nuovo giorno entrino nelle mie iridi.
Tra i resti di un palazzo scoperchiato alcune modelle tisiche sfilano sopra una pedana infuocata e si lasciano stuprare dagli sguardi di uomini rozzi e villosi in preda ai fumi dell’alcol. Cani alati, ma incapaci di volare, sfoggiano la loro tremenda idrofobia con ringhi feroci. Una ragazza con un kimono strappato è intenta a nascondere i pochi averi nell’utero della sorella appena morta. I quartieri periferici della città sono flagellati dalle malattie mortali e dalla lotta per la sopravvivenza. Una madre con il seno prosciugato tenta di allattare il suo bambino con il sangue. Il grande fiume che scorre attraverso la città trasporta cadaveri, mobilia distrutta, carcasse di animali e folletti patogeni. I colori pacifici del cielo stridono con le chiazze plumbee del territorio urbano. Le persone combattono tra di loro fino alla morte per dei pezzi di pane raffermo. Le donne incinte vengono uccise senza remore e i feti finiscono sulle tavole di uomini asserviti al cannibalismo. I simboli e le pagine sacre delle antiche religioni alimentano fuochi notturni che illuminano le ombre dei carnefici e delle carneficine. L’essere umano vive di nuovo le sue origini con più violenza e ferocia, in attesa che il totale abbandono della ragione, che un tempo gli aveva conferito lo scettro del pianeta, lasci il posto all’estinzione della specie. I luoghi di culto sono stati trasformati in grandi discariche in cui si trovano le baracche di uomini in perenne lotta tra loro. Nel migliore dei casi i bambini crescono in mezzo alle fosse comuni e muoiono a causa di gravi epidemie. Scheletri romantici osservano gli ultimi tramonti dell’umanità senza proferire parola e dai loro teschi erosi si può ancora percepire la rassegnazione all’apocalisse.
Deambulo tra il giorno e la notte con sorrisi intermittenti. Alle volte una rêverie improvvisa mi lascia lungo stradine viennesi sovrastate da sere settembrine. Sono felicemente alienato nel mio ozio e non smetto mai di non fare un cazzo. Ho elaborato un’intuizione banale per queste righe quotidiane: “La vita è al di fuori del mio vuoto e io non mai tempo di farci un salto”. Un aforisma degno della peggiore rubrica di uno dei tanti settimanali di merda. Non è sempre facile descrivere la mediocrità ed è per questo motivo che talvolta incontro delle difficoltà nel redigere me stesso. Credo che da qualche parte esista un becchino che dipinge a tempera la tempra dei suoi affittuari silenziosi. Ho costruito la frase precedente per giustificare l’allitterazione e credo che sia una prova abbastanza evidente del carattere puerile e un po’ prolisso della mia scrittura. Se avessi una buona padronanza della lingua italiana e uno stile adatto al grande pubblico probabilmente scriverei libri e mi masturberei in albergo tra una promozione editoriale e l’altra. Il talento non è una discriminante per la mia vita e sono contento di non averne, altrimenti dovrei affrontare i sensi di colpa dovuti al suo spreco. Ciò che ho scritto finora non batte bandiera modesta, ma penso che sia il frutto di un’autocritica un po’ malefica nei confronti del mio modo di esprimermi attraverso queste parole virtuali. Un po’ di tempo fa scrissi qualcosa di simile, ma ritengo che a causa della pochezza dei miei interessi sia quasi inevitabile che io cada sempre sulle stesse tematiche.
La presunta morte di Osama Bin Laden è circondata da molte incertezze, invece attorno alla vita della mia serenità non c’è dubbio alcuno. Mi piace vivere e non temo il percorso biologico. Qualche giorno fa mamma mi ha detto che una sua amica potrebbe offrirmi un lavoro interessante, ma sono rimasto un po’ perplesso dalle sue parole. Il lavoro in questione prevede l’utilizzo di un software per il controllo di alcune attività delle piattaforme. Non mi reputo in grado di sfruttare questa possibilità, nonostante io non ne conosca ancora i dettagli. Se accettassi questa offerta dovrei frequentare un corso di formazione e nel caso di un esito positivo dovrei partire con l’amica di mia madre per qualche zona remota del globo. Mi piace l’idea di stare seduto davanti a un monitor all’interno di una piattaforma. Mi è stata proposta la formazione per questo lavoro grazie all’amicizia che lega mia madre a questa professionista del settore e alla mia fama di nullafacente. Forse non tenterò nemmeno di iniziare questa avventura, tuttavia non ho ancora escluso l’ipotesi contraria. Mi rendo conto di come un mio rifiuto a questa possibilità lavorativa possa sembrare uno schiaffo alla disoccupazione che flagella molti dei miei coetanei, ma sinceramente non me ne frega un cazzo. Sono curioso di sapere come si concluderà questa vicenda che probabilmente entrerà nella hall of fame delle mie occasioni mancate. L’autunno soggiorna di nuovo nel mio emisfero e lavora per aprire la strada all’inverno. Le stagioni non mi sorprendono più, ma il passaggio da una all’altra riesce ancora a deliziarmi senza una ragione apparente.
L’eutanasia è tornata di attualità grazie al video che un malato terminale ha inviato al presidente della Repubblica. Penso che a una persona lucida senza più speranze di guarigione vada riconosciuto il diritto di decidere se vivere o morire. L’accanimento terapeutico rappresenta l’ennesimo dazio che la legislazione italiana riconosce ai burattinai senza volto del Vaticano. Credo che un paese non possa considerarsi civile se obbliga i suoi malati più gravi a cure tanto inutili quanto dolorose. Se sono un malato terminale e sono in grado di decidere, perché non mi è permesso scegliere tra una sopravvivenza meccanica e una morte dignitosa? È disarmante come una persona gravemente ammalata debba soffrire per un buco legislativo dovuto a una morale cattolica che non appartiene a tutti gli italiani, ma che condiziona quasi tutti i politicanti. Immagino che l’accanimento terapeutico abbia un costo umano non indifferente: un calvario per le famiglie e un senso di frustrazione a cui non oso pensare. Credo che la cura talvolta si trovi nell’accettazione della morte. I paesi che si proclamano civilizzati dovrebbero preoccuparsi del diritto alla morte per tutelare i malati terminali che non vogliono vivere a ogni costo. Penso che la questione sull’eutanasia verrà fatta sfumare anche questa volta, ma continuerà a bussare sulle coscienze fino a quando non verrà affrontata come si deve, intanto chi se lo potrà permettere andrà a morire all’estero, mentre i soliti disgraziati agonizzeranno nei loro letti. Un evergreen.
Franco Battiato – Il Ballo del Potere
Pubblicato sabato 23 Settembre 2006 alle 03:43 da FrancescoIn tenera età mi è stata propinata una grande quantità di musica italiana, ma non sono mai riuscito ad apprezzarne molta, specialmente quella dei cosiddetti cantautori. Ricordo che da piccolo prendevo le cassette del mio presunto padre e mi chiudevo nell’auto di mia madre per ascoltarle in pace. La musica di Franco Battiato mi ipnotizzava. All’epoca, ovvero all’inizio degli anni novanta, ascoltavo spesso “Atlantide” e “Caffè De La Paix” nella vecchia Alfa Romeo di mamma. Non mi piace tutta la discografia di Battiato, infatti non sono in grado di apprezzare i suoi primi lavori che risalgono agli anni settanta, come “Fetus”, tanto per citarne uno. “Lode all’Inviolato”, “Mesopotamia”, “Sentimiento Nuevo”, “Sui Giardini della Preesistenza”, e “Il Mantello e La Spiga” sono i pezzi che preferisco, ma ho anche un bel ricordo di tracce più famose come “La Cura”, “Bandiera Bianca” e “Centro di Gravità Permanente”. Pezzi come “Alexander Platz” e “Un’altra Vita” mi hanno accompagnato durante notti insonni che hanno preceduto molte delle mie assenze ingiustificate da scuola. Mi rivedo in un passo de “Il Ballo del Potere”: “Gli aborigeni d’Australia si stendono sulla terra, con un rito di fertilità vi lasciano il loro sperma”.