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Un boa arcobaleno e la morte del suo padrone

Il suono di sei corde si propaga in una stanza di legno che si trova immersa in una foresta pluviale senza nome. Tra le quattro pareti un vecchio morente medita in ginocchio sopra un tappeto persiano e lascia che un raggio di sole indiscreto illumini silenziosamente il suo cranio canuto. L’anziano ha gli occhi serrati ed esegue movimenti lenti con le braccia mentre in un angolo le spire del suo boa arcobaleno avvolgono la gamba di un tavolo. Il vento sospinge alcune foglie invernali contro l’unica finestra della stanza, le candele sulla menorah si consumano lentamente, l’incenso vizia l’aria e gli arazzi osservano ogni cosa senza mai abbassare lo sguardo. Le foto in bianco e nero sporgono cupamente dalle loro cornici d’argento ed emanano il fetore di un passato nauseabondo. Sopra una sedia di paglia giaciono abiti sbiaditi e logori. Il morente porta alla bocca le ultime cucchiaiate del suo declino e si prepara a riconciliarsi con la metempsicosi. Le cascate modulano il proprio rumore in base al respiro faticoso del vecchio e sembra che ogni movimento del creato sia orchestrato da Gea per omaggiare il morente con l’ultima sinfonia mai trascritta. Preghiere corali e rituali funebri compongono la liturgia di molte allucinazioni mistiche, ma quei procedimenti apparentemente sacri hanno il solo scopo di aiutare i vivi a sopportare l’idea della loro fine. Il distacco dalle funzioni vitali è una cerimonia individuale affidata al morente e nessun altro può officiare al suo posto. Sacerdoti, sciamani e sciami di familiari sono solo comparse inutili sull’ultimo palcoscenico dell’esistenza.

Francesco

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