Continuo ad aggirarmi nei vicoli stretti di luglio. L’ozio padroneggia ancora il mio tempo, ma ultimamente ha allentato un po’ la sua presa. Le mie giornate si assomigliano molto fra loro e per lo più sono differenziate dalla velocità con cui lasciano il mondo: alcune volte scorrono rapidamente, altre volte raggiungono la fine con un’andatura pachidermica. Quando bocche audaci lanciano parole di cui non mi fido la mia indifferenza sta sul chi vive per impedire che frasi pleonastiche disturbino la mia attenzione. La mancanza di stimoli è ancora una costante della mia quotidianità e per adesso non vedo svolte imminenti a questo vuoto di spunti. Non ho interessi in comune con le persone che ogni tanto si trovano nell’orbita della mia vita e per questo motivo la noia domina l’esiguo numero delle mie relazioni sociali. In questo periodo il mio scroto puzza più del solito, ma spero che lo shampoo e il balsamo possano aiutarmi a combattere i suoi cattivi odori, oppure sarò costretto a potare la peluria che ricopre la mia zona pubica. J. occupa ancora una buona porzione dei miei pensieri estivi, nonostante le nostre occasioni per parlare siano sempre più rare. Se leggessi queste parole e non mi conoscessi potrei pensare che la mia estate sia una fogna a cielo aperto, ma in realtà è meglio di quanto traspaia da queste righe. Tra meno di due settimane ho in programma un’allegra gita pomeridiana con il mio istruttore di guida e con un esaminatore sconosciuto. Nel caso dovessi incorrere anche questa volta in una bocciatura andrò a fare in culo senza pensarci troppo.
Alcuni bambini senza volto fanno il girotondo attorno alle siringhe e accompagnano il loro gioco con una macabra filastrocca che non permette ai morti di trovare pace. Alcune ombre tentano di strangolare le persone che passano vicino al loro muro. Un vecchio puzzolente dorme sopra i vetri delle bottiglie di birra, ma egli non è un fachiro. La luce e il buio non hanno potere in questo reame di squallore e degrado. Il rumore delle marmitte scandisce gli aborti, le urla, le coltellate e il masticamento del pane raffermo. Numerosi falò di immondizia incrementano il caldo torrido che impera nelle strade e veicolano il puzzo dei cadaveri ornati a festa. Molte persone non hanno più i denti in bocca, infatti indossano collane composte dalle loro carie e dal fildiferro. Ogni tanto esplode qualche tuono per chiedere silenzio alla colonia di defunti ritardatari che affolla l’uscita della vita. La luce piromane brucia le camelie, mette a ferro e fuoco le articolazioni e incendia le stanze dei neonati. Lungo i marciapiedi si trovano croci bianche che spesso vengono annerite dalla caligine degli impianti industriali. La claustrofobia miete vittime nelle piazze e raccoglie gli scalpi in un carrello della spesa. In un piccolo negozio di alimentari tetro e sporco il metadone si trova accanto agli omogeneizzati. In questo loco chi non si suicida entro i primi vent’anni trascorre la vita a schizzare sperma sul televisore. Una famiglia cuoce una carogna e non vede l’ora di iniziare il pranzo di Natale.
Un aquilone fosforescente vola convulsamente in mezzo alle macchie nere del cielo, un paio di granchi furiosi agitano minacciosamente le achele vicino a uno scoglio muto e il fantasma di una giovane sposa passeggia a mezz’aria. Una donna completamente nuda si dedica anima e corpo alla costruzione delle sue aspettative di sabbia e accanto a lei sua madre accarezza il proprio cane di cristallo. A venti metri dalla costa ci sono undici nipoti che fanno a gara per decidere chi di loro sia il più bravo ad affogare; un bagnino osserva da lontano e ogni tanto si lascia scappare qualche applauso di circostanza. Un vucumprà in giacca e cravatta vende tappetti e sogni lungo il litorale, ma la gente vuole comprare solo drammi da rivendere all’attenzione altrui. Un pescatore cammina sul frangiflutti mentre si confessa con le sue esche. Ad alcuni chilometri di distanza, sopra un gommone arancione, due subacquei si preparano a raggiungere le sirene che hanno conosciuto quando hanno rischiato di morire per embolia. Un figlio tumula il padre sotto la sabbia per regalargli un’ultima abbronzatura. Sbocciano amori velenosi tra i lettini del grande obitorio soleggiato. Le mani delle persone stringono fette di cocomero, succhi di frutta, giornali sportivi, cellulari silenziosi e dita infedeli. Culi di ogni forma ed età sono i protagonisti di sguardi apparentemente accidentali. Pubertà che nasce sotto un ombrellone e giovinezza che crepa come un istrice arrotato da un furgone.
Ieri ho visto “Prima Che Sia Notte”, un film biografico che ripercorre la vita dello scrittore cubano Reinaldo Arenas. Le vicende si svolgono in una Cuba molto diversa da quella idolatrata dai castristi di tutto il mondo, dove la rivoluzione di Fidel mostra le sue contraddizioni e la sua ferocia. Le prime inquadrature descrivono l’infanzia rurale di Arenas: “La mia fu un’infanzia di singolare splendore, nell’assoluta povertà, nell’assoluta libertà, fuori all’aperto, circondato da alberi, animali e persone a cui ero indifferente”. Torture, accuse infamanti e vessazioni di vario genere hanno accompagnato veramente buona parte delle vicissitudini cubane di Arenas e mi sembra che Julian Schnabel, il regista, non abbia edulcorato la realtà, infatti le scene di sesso e di violenza fanno più volte la loro comparsa, ma esse non sono mai fini a sé stesse. A volte il film è inframmezzato dalla voce fuori campo del protagonista che a mio avviso aiuta il ritmo della storia. Non mi è piaciuto molto il finale newyorkese, dove Arenas, apolide, esule e malato, trova la sua fine. Ho apprezzato molto questo breve passaggio: “La differenza tra prendere un calcio in culo a Cuba e prenderlo in America è che a Cuba ti devi inginocchiare e applaudire, mentre in America puoi urlare”. Credo che scorrano bene le due ore di questo compendio biografico e penso che non siano adatte agli amanti dell’omofobia né ai fautori del castrismo. Una nota: il titolo del film è stato preso in prestito dal libro autobiografico di Arenas.
Una donna cammina da sola alle sei del mattino, ha un passo lento e presta attenzione a tutte le pozzanghere che si frappongono tra lei e il suo reame di tristezza. Un autobus vuoto passa accanto alla dama ignota, dall’altra parte della strada un bar si prepara ad aprire e qualche chilometro più in alto le prime luci aurorali incominciano a paracadutarsi sopra i palazzi. La concubina del dolore vuole raggiungere il suo monolocale per stringere al petto il primo cuscino disposto mungere i suoi occhi. Una bimba cresciuta, una principessa mancata, una collezionatrice di frecce arrugginite scoccate da Cupido in persona sotto l’effetto della polvere d’angelo. Nella sua piccola abitazione ci sono vecchi poster di idoli giovanili ormai mandati in pensione dalla cultura pop. I tempi cambiano, le mode mutano, ma lei è ancora una vecchia adolescente alle prese con la disillusione e la quotidianità. Da piccola giocava con le bambole; qualche settimana fa un giocattolaio con uno stetoscopio al collo le ha promesso un bambolotto tutto suo. La maternità è costosa e lei non può affrontare le spese. Solo la prostituzione potrebbe permetterle di provvedere per il suo improbabile nascituro. Non è la moralità a trattenere questa ragazzona dal marciapiede, ma è il timore d’incontrare suo padre come cliente a impedirle di frequentare i bassifondi dell’anima umana. Il suo ex l’ha ingravidata e poi l’ha invitata ad accomdarsi nella discarica più vicina. Un’attrazione fatale senza morti in mezzo all’indifferenza dei vivi. Be happy sweet child o’ mine. L’anestesia sempre nello stesso punto, come le altre volte. Non farà male, oh no.
Ho passato il sabato sera a leggere alcuni articoli sulla Corea del Nord e alla fine della mia lettura sono rimasto un po’ intimorito da questo paese dell’Estremo Oriente. La Corea del Nord è isolata dal resto del mondo, la sua politica militarista costringe la gente alla fame e fomenta la minaccia nucleare. Le testimonianze che ho letto riguardo a questo eremo asiatico hanno molti punti in comune, e spesso sottolineano il totale oscuramento mediatico che permette al regime di Kim Jong Il di controllare il popolo. Il richiamo a “1984” di Orwell è scontato. A quanto ho letto è difficile entrare in Corea del Nord, chi vi riesce non può girare liberamente e deve essere sempre seguito da una scorta. Pare che uno dei divertimenti maggiori per i turisti sia il karaoke. Mi hanno colpito le agghiaccianti descrizioni delle strade: semafori spenti, vigili e vigilesse che dirigono il traffico composto prevalentemente dalle jeep dei militari e dalle Mercedes del Partito, i ritratti di Kim Il Sung che fissano i passanti e gli slogan del regime che vengono trasmessi quotidianamente. Nelle fotografie di Pyongyang, la capitale, gli enormi grattacieli che popolano la metropoli mi sembrano l’eco edile della surrealità dittatoriale di questa repubblica popolare. Sono incuriosito dall’alienazione di questo paese e mi piacerebbe molto avere la possibilità di visitarlo. La moneta locale è il won nordcoreano, ma gli stranieri non possono farne uso e devono ricorrere ai dollari per effettuare i loro pagamenti. La Corea del Nord è un paese autarchico colmo di divieti, ho letto che è proibito perfino il possesso delle radio. Desidero toccare con mano questa aberrante costruzione comunista per percepirne la follia.
La fotografia ai piedi di queste parole mostra il dipinto di una finestra che ormai si trova da anni sul muro del mio bagno. Mi piacerebbe tappezzare le pareti della mia casa con dipinti di vario genere, ma purtroppo oltre ad avere i denti storti e un pene piccolo non sono in grado di riprodurre le immagini che fluttuano nella mia testa. Fisso la finestra che si vede nella foto ogni volta che siedo sulla tazza del cesso e spesso avverto una piacevole sensazione di libertà favorita dal contemporaneo sdoganamento degli stronzi dal buco del mio culo, o, per usare un linguaggio più forbito, dal mio orifizio anale. A parte la facile volgarità, devo ammettere che il dipinto nel bagno giova veramente all’espletamento dei miei bisogni fisici e rende meno grigia la mia permanenza al cesso. Mi chiedo se la finestra sia stata dipinta leggermente aperta per favorire la fuoriuscita immaginaria dei cattivi odori: probabilmente il mio interrogativo rimarrà senza risposta.
Emmanuel Milingo è tornato a far parlare di sé a seguito del recente battesimo della sua associazione per i preti sposati. Credo che il matrimonio possa giovare a quei sacerdoti che consumano l’otto per mille al cellulare con le loro madonne o che assumono avvocati con i quali difendersi dalle accuse di molestie sessuali. La fiction italiana è basata prevalentemente sulla figura eroica del prete e del carabiniere di turno e per questo motivo immagino che se il Vaticano concedesse il matrimonio ai preti qualche mente illuminata di Viale Mazzini potrebbe dare il via alla produzione subitanea di “Un Ministro del Culto in Famiglia”, ovvero la versione italiana e cattolica di quell’aberrante telefilm statunitense chiamato “Settimo Cielo” che da alcuni anni a questa parte ammorba la programmazione televisiva con le mielose vicende di un pastore protestante e della sua famiglia. In realtà non sono interessato alla causa di quei preti che vogliono inzuppare il biscotto con l’avallo del Vaticano e ho usato la notizia legata all’iniziativa di Milingo solo per scrivere qualcosa di effimero su queste pagine virtuali.