Un grande veliero si trova in preda ai moti violenti di onde gelatinose. La ciurma bestemmia all’unisono e impreca contro la grande volta arancione che sovrasta il creato. Nella stiva un mozzo assai sensibile è impegnato a scrivere una lettera alla madre e si augura che la bottiglia nella quale infilerà la sua epistola possa giungere fino ai piedi della sua genitrice. La tempesta di sapone non cessa, i suoi slanci cullano violentemente lo scafo e sventolano le vele come quei fazzoletti bianchi che celebrano l’addio in mano alle mogli e ai figli. La schiuma oceanica candeggia la sottile linea della casualità oltre la quale si trova il disastro. Alcuni marinai atei alternano bestemmie e preghiere, altri marinai più impavidi mantengono l’attenzione sulle proprie mansioni. Le bussole ruotano velocemente, il timoniere è comandato dal fantasma della paura, l’albero di maestra oscilla senza sosta e sul ponte la speranza e la rassegnazione si esibiscono in un tango frenetico. Gli uomini a bordo sono abili con le cime, ma non sanno sciogliere i nodi alla gola. La costa è lontana e l’apparizione di un nuovo faro è una chimera troppo dolorosa per le menti in balia dei flussi oceanici. Il terrore raffigurato dai muscoli facciali dell’equipaggio è un bassorilievo che rappresenta l’impotenza dell’uomo di fronte all’irrazionalità degli elementi. La bonaccia raccoglierà le note suonate dalla tromba marina. Assi di legno, vestiti strappati e barili vuoti resteranno in superficie. La vita abbandonerà la nave per arrembare la barca di Caronte.