Mi trovo all’interno di una vecchia scuola abbandonata. Il vento gonfia le tende dei corridoi, sbatte le finestre con veemenza e trascina petali primaverili sul pavimento. Sotto alcuni banchi ci sono libri di storia fermi ai fatti di vent’anni fa: questo istituto è molto vecchio. Le carte geografiche presenti nelle aule mostrano ancora l’URSS. I cessi sono distrutti, i lavandini sono divelti e gli unici superstiti dei bagni sono le dichiarazioni di infatuazione scritte con i pennarelli e le figurine dei calciatori attaccate sulle porte. Il vissuto dell’istituto mi è chiaro. In questo luogo hanno transitato professori frustrati e soli, diciassettenni incinte, ragazzini con il mito di Van Basten, studenti introversi e bidelli perversi. La campanella ha annunciato spesso l’inizo delle lezioni e alcune volte il suo suono ha scoccato l’ultimo decibel dell’innocenza. Una gomma da masticare essiccata è il compendio di più generazioni. Mutano le temperature, cambiano i volti dello star system, ma le paure del futuro e gli affanni del presente hanno sempre le stesse caratteristiche durante il transito adolescenziale. Ieri foglietti e passaparola, oggi cellulari e computer palmari: il modo di comunicare ha cambiato forma e si è raffinato, ma le trasmissioni sono ancora interrotte. All’appello mancano sempre il dialogo e la comprensione e molti nomi sul registro di classe sono trincerati nella loro solitudine invisibile. Il sistema scolastico si è sempre avvalso di strumenti divinatori come le pagelle e le note disciplinari per delineare la vita dei propri subordinati. La mia fantasia vede un giullare che presiede l’esame di coscienza di un uomo: l’esaminando suda e risponde alle domande mentre spinge un revolver contro la sua tempia.