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Baldoria post mortem

Salto in mezzo alla vita, sorrido alla morte e spesso piscio in mezzo alle piante di mia madre. Che quella cazzo di orchestra suoni un po’ di dixieland, voglio imparare a ballare con quella scrofa incartata nella flanella. Usciamo da questo locale: portatevi dietro le bottiglie e non dimenticatevi l’anima. Forza branco di alcolizzati in erba, andiamo a fare baldoria davanti alla camera mortuaria; chi è morto è troppo contento per lamentarsi delle nostre gare di rutti intercalate da lunghe serie di bestemmie. Ehi tu, faccia di culo, smettila di mandare SMS alla tua bella e chiama quell’imitatore di James Brown, voglio che il funk avvolga ‘sta cazzo di atmosfera funebre. L’alba aspetterà i nostri comodi e sorgerà solo quando ce ne saremo andati. Siamo gente seria e non ci piace la cultura del lutto, preferiamo commettere atti di bontà nei confronti dei i vivi invece di piangere i morti tenendoci le mani sul pacco. Non facciamo finta di essere dei duri, anche noi versiamo lacrime, ma non riusciamo a lasciarle cadere per un evento banale come la morte. Siamo giovani e vecchi, ce ne freghiamo della vedovanza; gli scialli neri stanno bene solo sulle spalle delle protagoniste dei cortometraggi porno soft o sotto i capelli di Anna Magnani. Litanie, tombe, discorsi prolissi e un numero consistente di frasi di circostanza. Se qualcuno desidera che io venga al suo funerale, o quello di un suo congiunto, deve permettermi di presentarmi come Carlo Verdone nelle prime scene di “Un Sacco Bello”: mano sullo scroto, catena pacchiana al collo e capelli alla Tony Manero. Mi sono appena accorto che non c’è una folla a pensarla come me: i duecento specchi di questa stanza mi hanno gabbato.

Francesco

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