Un uomo alto e robusto cammina in mezzo a un campo illuminato dalla diffidenza del sole; egli indossa un ampio pastrano di origine sovietica e porta ai piedi un paio di anfibi marroni consumati dal tempo. Sparsi lungo il campo, uomini e donne di ogni dove piangono in dialetto il ricordo dei loro defunti. La notte non passa mai sopra quel campo luttuoso e ciò permette alla natura di fissare i suoi riflettori sull’inizio della fine. Solo le lacrime dell’uomo con il pastrano si rifiutano di irrigare il terreno. Un uomo avvizzito e avvezzo alla fatica si occupa dei cipressi alti e orgogliosi che adornano il camposanto. Ogni persona ha qualcuno da piangere: un fidanzato morto in un incidente stradale, una moglie deceduta dopo una lunga agonia, un amico impiccato nella tromba delle scale, una figlia uccisa dalla follia passionale di un uomo più grande di lei o due sorelle dilaniate dalla bomba santa di un dio funesto. L’uomo con il pastrano non ha nessuno da piangere, egli passa accanto al dolore altrui, ne ruba alcuni frammenti e li nasconde nel suo ampio cappotto. Quell’uomo è un taccheggiatore di incubi: si nutre di episodi tristi per lenire il vuoto che compenetra ogni suo respiro. La bulimia sadica è una patologia nazionalpopolare che affligge chi decide di adorare il male perché ne ha subito l’azione corrosiva. Il male descritto dalle mie dita non ha connotazioni morali, ma è inquadrato come uno dei primi elementi cosmogonici assieme alla sua controparte. La fame candida del dolce sentimento simbiotico non può essere placata dalle briciole del patimento estraneo. Il pastrano di quell’uomo, tessuto con la discordia e con la disastrosa percezione del dolore, non può nulla contro il freddo plutonico che staziona nelle zone più recondite dello spettro umano.
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