Tutto ebbe inizio la sera del diciotto giugno 1996. Sedevo al solito bar ed ero impegnato a rovinare il mio fegato con alcol e fumo. A un tratto sentii una mano sulla spalla, mi volsi e vidi Romano. Non dissi nulla, lui sedé dinanzi a me e ordinò un bloody mary. Dopo cinque minuti di silenzio mi guardò e mi disse: “Devo parlarti”. Feci un cenno d’assenso con la testa e lui proseguì: “Mi è stato chiesto di andare a prendere un carico di polvere d’angelo a Cartagena e ho bisogno di un partner”. Ero appena uscito di galera per rapina a mano armata e avevo pochi soldi che spendevo in liquori: a trentasette anni non me la sentivo di diventare un muratore, per questo accettai l’offerta di Romano. Ci accordammo per la partenza e tornai a casa a preparare la valigia per l’ennesima volta. L’indomani raggiunsi Fiumicino con la mia Lancia Thema e mi incontrai con Romano al check-in: ce l’avevamo scritto in faccia che andavamo in Colombia a raccogliere grammi di polvere. Il viaggio in aereo non fu altro che un un viaggio ad alta quota dentro me stesso. Le immagini confuse del mio passato si diedero appuntamento a undicimila metri. Dopo tre ore di volo chiesi un bicchiere d’acqua alla hostess per idratarmi e sostenere la carrellata di ricordi: Irene, la nostra casa, quella figlia non riconosciuta, la mie rapine, i miei traffici e la prima e unica violenza sessuale subita tra le mura delle carceri; le sere passate a fottere il mio organsimo con l’ambrosia nociva, le botte date a mio padre e le scopate laide con prostitute extracomunitarie dai nomi impronunciabili. Romano mi disse che appena scesi all’aereoporto di Bogotà, l’El Dorado, avremmo dovuto prendere un autobus e cercare il nostro contatto per raggiungere i dintorni di Cartagena. Il traffico di droga in realtà non è romantico come nei film: non sono più i tempi di Pablo Escobar e le traversie dei trafficanti non durano due ore e mezza come in “Scarface”, ma perdurano tutta una vita. Appena usciti dall’aeroporto un tassista si offrì di portarci in città, ma non avevamo tempo per farci rapinare, così fummo costretti a declinare l’offerta. Aspettamo l’autobus per venti minuti: appena giunse salimmo e ci accomodammo in fondo, tra occhi neri e parole spagnole. Durante il tragitto ci addormentammo come due coglioni e al risveglio non trovammo più le nostre valigie né i nostri portafogli. Era il colmo: due trafficanti di droga derubati durante il sonno da ladri di galline analfabeti. Non avevamo più i nostri passaporti e non potevamo rivolgerci al consolato italiano. In Colombia si parlano due lingue: la lingua spagnola e la lingua di fuoco. Avevamo bisogno di armi per ottenere dei passaporti falsi, ma tutto ciò che avevamo era appena sufficiente per accontentare la mano tesa di un mendicante. Scendemmo dall’autobus e decidemmo di trovare qualcuno che potesse darci un paio di pistole semiautomatiche. Sciacquai la mia faccia con l’acqua sporca di una fontanella e poi rincorsi Romano che si era già avviato verso un vicolo sporco. Appena lo raggiunsi lui si voltò, mi diede una spinta e poi mi disse: “È colpa tua, lurida testa di cazzo”. Io risposi: “Che cazzo dici? Romano, vaffanculo”. A un tratto due ragazzini comparvero alle spalle di Romano e iniziarono a tirargli la giacca. Romano si volse e urlò: “Ehi pezzi di merda, fuori dai coglioni hijos de puta”. Alle parole di Romano uno dei due ragazzini digrignò i denti, tirò fuori una pistola nascosta sotto la t-shirt, la impugnò con due mani e sparò sei volte. Il ragazzino armato cadde a terra per il rinculo dell’arma dopo l’esplosione dell’ultimo colpo che raggiunse il mio polmone destro. Il mio tentativo di fuga fu inutile. I ragazzini iniziarono a raziare i nostri corpi che erano in preda agli ultimi spasmi. Ora sono riverso a terra, vedo il cielo macchiato dai tubi di scappamento e sento il sangue che ebolle dalle mie budella. La mia vita si conclude tra i rifiuti di un vicolo senza nome nelle viscere di Bogotà.
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