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Passeggiata nosocomiale

Mi trovo di fronte a un grande ospedale. Le aiuole sono utilizzate per la sepoltura dei cadaveri mutilati e rappresentano il campo di battaglia per le iene anoressiche. Ai lati del viale che porta all’entrata del nosocomio si trovano palme morenti che salutano la vita con le fiamme perenni delle loro foglie. Il cielo è magenta a qualsiasi ora. Decido di entrare nella struttura ospedaliera, ma prima mi assicuro che la suola della mia scarpa destra non abbia residui di vomito. Un usciere vestito da monaco saluta la mia entrata con un movimento tantrico. Nel primo corridoio scorgo un uomo sfigurato che spinge la sedia a rotelle di una ragazza paraplegica in preda alle convulsioni. Poco più in là un tuareg illustra ad alta voce gli organi in offerta sulla sua bancarella, mentre mercanteggia ruota continuamente la sua testa di trecentosessanta gradi e ogni tanto lancia occhiate verso il suo cammello che si abbevera da un pitale. In ostetricia le gestanti gridano contro i loro feti che fuggono sorridenti senza il permesso della vita. Negli ascensori si eseguono le autopsie per evitare che i pazienti ripongano troppa fiducia nella pazzia dei dottori armati. Donne vecchie, grasse e con grandi nei neri sul naso puliscono i pavimenti con l’acido muriatico. Talvolta le mattonelle sorreggono la cute che un tempo prendeva la forma dettata dallo scheletro. Da uno sgabuzzino angusto si odono le litanie di un prete e di due suore; la fede è oblio. Un muratore, ancora in tenuta da lavoro, suona il violino e ogni tanto si ferma per annunziare a voce alta: “Mia figlia vivrà, mia figlia non morirà, lo sai che mia figlia vivrà?”. Le mensa del nosocomio è formata da forni crematori attorno ai quali abili panettieri esercitano la cremazione dei corpi e la lievitazione del pane quotidiano. In questo ospedale c’è solo una grande sala d’attesa colma di giovani vedove che piangono lacrime di porpora. Da ogni parte ci sono icone sacre addobbate con la carta igienica. C’è un crocefisso per terra trafitto da una siringa infetta. I bambini malati di cancro collezionano le garze usate e le scambiano con la tipica alternanza d’umore del collezionista superficiale. “Ce l’ho, mi manca, ce l’ho, mi manca” ripetono tutto il giorno i giovani malati terminali con l’ausilio delle loro voci bianche simili nella colorazione ai loro globuli lattei. Da una vetrata noto che la sala di rianimazione è stata presa alla lettera; circa trenta persone affette dalla sindrome di Down ballano il twist. In radiologia c’è un uomo anziano che fotografa i suoi organi fottuti dall’alcol e dal fumo. Mi fa paura quell’anziano che bombarda il suo corpo con le radiazioni. Esco dall’ospedale, salgo sulla mia ambulanza e mi allontano ascoltando un pezzo country alla radio.

Francesco

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