Candy Dulfer, una sassofonista trentenne tanto incantevole quanto talentuosa, mi accompagna in queste prime ore pomeridiane con il sound di “Big Girl”, un suo album datato 1996. Oggi ho intenzione di sudare molto: pesi e cyclette a gogò. Tra qualche giorno inizierò la pratica di scuola guida e credo che dovrò affrontare l’esame prima della fine di aprile; mi auguro di passarlo al primo tentativo come è accaduto per quello di teoria. A me non serve la patente B perché la natura mi ha già dato la licenza di andare dove voglio. Il cielo è oscurato, ma io continuo a coltivare la quiete. Sono quasi le tre di pomeriggio e non ho molte parole da dispensare, nonostante la mia fantasia possa partorirne a quantità industriali; evidentemente non è il momento di lasciare che le parole proliferino lungo queste righe invisibili. Devo ricordarmi di masturbarmi, è qualche giorno che mi passa di mente. Affiggo l’ultimo punto e mi preparo a dare il via alle ghiandole sudoripare.
Sono a favore dell’eutanasia. Purtroppo nella mia nazione la pratica della morte dolce è illegale. Credo che l’Italia sia lontana dalla condizione di stato laico e da un sano processo di secolarizzazione. Le mani oscure del Vaticano sembrano gestire i fili della politica tricolore quando essa si trova a legiferare su questioni care alla Santa Sede. Penso che l’influenza cattolica, a mio avviso di matrice medioevale, talvolta riesca a suggellare anche le menti di coloro che si professano atei o addirittura anticlericali. Perché non sono libero di decidere se, a seguito del grave decorso di una patologia, morire o continuare con l’accanimento terapeutico? Un fedele ovviamente non ricorrerebbe mai all’eutanasia, dunque non vedo perché negare, a chi come me non ha fede in nessun mito religioso, la possibilità di decidere sulla propria sorte. A me sembra evidente che il diniego dell’eutanasia abbia radici nella triste tradizione parrocchiale di menti ristrette e retrograde. Vorrei che fosse ridimensionato il ruolo della religione nel mondo. Capisco l’importanza di questa istituzione per tutte quelle persone che hanno bisogno di rassicurazioni celeri sulla vita e sulla morte, ma queste raccolte di fandonie metafisiche non dovrebbero condizionare la libertà individuale di chi non le accetta e vuole continuare a non accettarle. Ovviamente chi ha denaro può decidere del proprio destino con un volo low cost per l’Olanda, mentre chi non può spendere cartamoneta per assicurasi un semplice diritto è costretto al supplizio inflitto dall’atroce ingerenza religiosa che governa sopra la ragione. Per fortuna ogni cosa ha una genesi e una fine: un giorno i simboli oggi considerati sacri verranno studiati sui libri di storia come feticci di un popolo ignorante.
All’improvviso mi trovo tra le pareti di una chiesa gotica, per confondermi in mezzo agli altri avventori mi siedo sulla prima panca che adocchio e inizio a comportarmi con nonchalance. Mi guardo attorno cercando di non destare sospetti e mi accorgo di essere in presenza di un matrimonio. Alla mia destra siede una signora grassa che indossa un abito vistoso. Questa grossa palla di adipe femminile mangia dei biscotti al cocco e ne espelle le briciole dalle sue cavità orali con una risata stridula e continua. I suoi occhi minuscoli tradiscono i suoi veri sentimenti: all’interno dei suoi bulbi oculari si riflettono tempeste ormonali e risentimenti atavici. Volgo il capo a sinistra e noto che il sagrestano, zoppo e trasandato, percorre con passo sbilenco la via fino all’altare. La sposa non indossa il velo nuziale, ma una corona arrugginita con l’effigie di un teschio. Lo sposo è nudo e porta sul suo capo un elmetto delle SS. Il sacerdote benedice la coppia con una vistosa ritualità manuale e termina la breve liturgia sferrando un pugno a un chierichetto; la folla laica ride tra le correnti d’aria provocate dallo sventolìo dei ventagli, mentre il ragazzino rimane a terra agonizzante. Approfitto dell’ilare generale e scatto verso l’uscita. La chiesa si trova sopra una cascata e io cado dentro le acque di essa in attesa di farmi trascinare verso la prossima proiezione.
Oggi ho terminato la lettura de “I Rifugi della Mente” e ho iniziato a sfogliare le pagine de “La Solitudine del Morente”. In questo momento sto ascoltando l’estro jazzistico di Gregg Bissonette. Mi piacerebbe avere orecchie con le quali sopportare il fracasso notturno dei vagoni ferroviari, occhi per vedere le anime in attesa dentro le stazioni; attese inutili, per molte persone l’ultimo treno è già partito da anni. Vorrei essere parte dell’etere per pitturare nella mia mente gli ultimi istanti di un disastro aereo. Se fossi sabbia scruterei le operazioni belliche in Iraq. C’è molto voyeurismo in me. In questo istante mancano dieci minuti alle undici di sera e io sto bene. Non mi interrogo più da giorni sulle cause del mio benessere interiore, lascio che esso mi culli e mi mostri la sua placenta. Ogni tanto lascio che la mia mente passeggi in mezzo al cimitero dei vivi che mi sono lasciato alle spalle; mezzo crisantemo per ogni lapide e niente di più. Non ho una lista nera, non posseggo più rancore e quasi stento a crederci. Per me il tempo è una cura poderosa, perché oltre a tamponare le emorragie dell’Ego permette di rinforzare i tessuti morali di quest’ultimo. Credo che l’isolamento sia una condizione transitoria che a volte può durare tutta una vita, ma c’è una cosa di cui sono certo: preferisco un isolamento ab aeterno a qualsiasi ballo in maschera.
Un auto con a bordo quattro ragazzi si è schiantata presso una strada della mia provincia. Un incidente mortale per l’autista, un mio coetaneo, un impatto serale come ne avvengono tanti sulle corsie italiane. Non riesco a fingere di essere dispiaciuto. Inoltre non ho molto rispetto per il lutto perché vivo la morte come un fenomeno naturale, anche quando essa si presenta senza avvisare. Ogni giorno molte vite vengono troncate e credo che questa non sia altro che selezione naturale. Qualche riga più sotto parlo di finto cinismo, ma io non fingo insensibilità nei confronti del decesso, posseggo semplicemente un altro modo di rapportarmi al termine dell’esistenza umana. Mi intimorisce la morte, ma allo stesso tempo mi eccita perché la vedo come un possibile punto di svolta o come la cessazione di ogni cognizione. Io non ho fede in alcuna religione, ma non nego la possibilità di un’altra forma di vita dopo la morte perché non ho elementi per confutare questa ipotesi. Non credo ai poteri medianici né alla spiritualità, così come non credo a chi esclude a priori la possibilità di continuare la propria esistenza dopo la scomparsa fisica. Attendo la risposta cercando di valorizzare le ore della mia vita e rincorrendo un sentimento immortale che è solito fuggire da me. In questo momento immagino il macabro spettacolo di un incidente stradale: lamiere deformate che penetrano la cute e sfregiano alcune ossa, sangue arterioso espulso dal corpo come il getto caldo di un geyser, flashback che illuminano la psiche, i lamenti delle sirene e i rantoli dei moribondi. Oggi è una bella giornata, il sole è alto e splendente: complimenti a tutti coloro che sono ancora vita.
Riesci a ingannare tante persone con la tua dialettica. Molti credono alla tua apparente insensibilità e pensano che tu non possa vedere oltre l’orizzonte del tuo cinismo. Non mi freghi, pezzo di merda. Lo so che hai un cuore divelto e che tenti di curarlo con un’apparente insensibilità. Ti senti rinvigorito quando le persone sottolineano il tuo atteggiamento sprezzante, ti senti fuori dall’ordinario, al di sopra delle persone comuni. Spiacente: non è così. Che tu sia uomo o donna, finto cinico o finta cinica, sappi che fai parte di un triste popolo martoriato dall’eccesso di amor proprio. Cerchi di sfogare la tua frustrazione e le tue delusioni senza tenere conto delle conseguenze, ma so che sei solo una vittima e non un carnefice. Il sadomasochismo fa la guardia alla tua psiche, mentre affronti un ennesimo esame di coscienza accontentandoti di un 6+. La società che ti circonda ti sembra cruenta e pensi che sia meglio uccidere moralmente piuttosto che essere uccisi. Non funziona così. Per quante tacche tu possa segnare sul tuo fucile emotivo non riuscirai mai ad annientare la verità che giace sul fondo della tua angoscia. Puoi mascherare il tuo mal di vivere con l’arroganza e la prepotenza, ma non riuscirai mai a impedirmi di scrutare il nido della tua pena. Non posso risolvere la tua vita e anche se potessi non lo farei perché sta a te levarti la corona di spine. Ti auguro buona fortuna, che tu sia un messere alfiere del cinismo o una milady che con il cinismo amoreggia nel suo io.
Arrivò all’aeroporto di Pulkovo nel primo pomeriggio e iniziò subito ad arrendersi all’accerchiamento delle segnaletiche cirilliche. Prese il suo bagaglio, comprò una barretta di cioccolato e si sottopose alla burocrazia aeroportuale. Carlo era un giovane toscano aitante senza più speranze. Si era risolto a partire per la Russia dopo il fallimento dell’azienda di suo padre, un fallimento causato dalla sua cattiva amministrazione. Non era religioso, ciò nonostante durante tutta la tratta aerea Fiumicino-Pulkovo aveva recitato un continuo mea culpa. Aveva raggiunto San Pietroburgo con l’idea di morire e voleva farlo tra le strade descritte dalla penna di Dostoevskij. Uscì dall’aeroporto dopo i controlli di rito, si accese una sigaretta e iniziò a cercare un taxi. Un uomo di mezza età, tarchiato e basso, iniziò a caricare le valigie di Carlo sulla propria auto senza proferire parola. La nicotina cadde a terra, schiacciata dal piede dell’italiano, il diesel della vettura sovietica si mise in moto e una fumata di smog offuscò il marciapiede. L’autista iniziò una logorrea russa con l’intento di truccare il tassametro senza farsi notare. Anche se Carlo avesse notato il trucco non avrebbe protestato perché gli interessava soltanto vivere la sua prima giornata russa e le sue ultime ore di vita. Aveva sempre sognato di recarsi in Russia e vedeva questo viaggio come una giusta liquidiazione dal suo battito cardiaco trentennale. Il russo si chetò dopo aver manomesso il tassametro, poi accese la radio e intonò con voce gutturale una canzone popolare. Carlo, all’inizio, non sapeva dove farsi lasciare, gli venne in mente una canzone di Franco Battiato e decise di fermarsi presso la prospettiva Nevsky. Scese dall’auto e allungò al tassista più rubli di quanti gliene dovesse senza preoccuparsi del resto. Salutò il truffaldino e iniziò a percorrere una delle strade più famose al mondo. I suoi occhi spiarono il colonnato della cattedrale di Kazan, il suo volto si riflesse sulle acque dei canali e la sua psiche lo indusse a trovare un albergo. Dopo un lungo vagare raggiunse un hotel a tre stelle di cui non ricordo il nome. Esibì il suo passaporto alla reception e chiese una stanza singola con l’ausilio del suo inglese maccheronico. Una bellissima ragazza russa gli rispose con cortesia, prese il compenso per una notte e gli porse la chiave della stanza numero quindici. Le quattro mura temporanee erano state riempite con mobili modesti e vecchi; un letto scomodo, un televisore non funzionante e un bagno senza cesso. Carlo si fece una doccia, si vestì e strinse al petto gran parte del suo denaro. Egli trascorse un’ora, dalle diciassette fino alle diciotto, steso sul letto, riflettendo su sé stesso, sulla propria vita e sulla fine di quest’ultima. Usò il bagno comune per pisciare, uscì dall’albergo e inizò a cercare i luoghi più malfamati della vecchia Leningrado. Il buio faceva capolino dal cielo e l’illuminazione urbana iniziava a propagarsi. Il suo cammino continuò per circa un’ora, a volte spezzato da piccole pause per osservare bellezze architettoniche come l’immagine lontanta della chiesa del Sangue Versato. Raggiunse luoghi periferici e incominciò a guardare con più attenzione le facce delle persone. Il suo istinto lo portò a entrare in una bettola dalla quale provenivano grida e musica, mentre nella sua mente apparivano le immagini del muro di Berlino e dei dibattiti sulla perestrojka. Appena entrato iniziò a squadrare alcuni ragazzi, poi si recò al bancone dove ordinò una bottiglia di vodka. Una cameriera, un po’ paonazza e alticcia, lo servì. Carlo bevve un sorso di vodka, si avvicinò sorridente ad alcuni ragazzi e colpì uno di essi con la bottiglia. Vetri in terra, sangue ad altezza d’uomo e acuti femminili che sembravano presi in prestito dal teatro Mariinsky. La compagine russa portò Carlo fuori dalla bettola e lo malmenò con calci e pugni fino alla sua morte apparente. La polizia giunse sul posto dopo quaranta minuti. Carlo non era morto. Un’ambulanza lo portò d’urgenza in terapia intensiva mentre gli agenti si accertarono della sua identità. Fu avvertita la famiglia in Italia tramite il consolato. Il padre raggiunse il figlio e vegliò su di lui fino alla morte di quest’ultimo che sopraggiunse dopo tre settimane di coma.
Stamane il mio risveglio è stato meraviglioso. Durante il dormiveglia ho iniziato a sentire il suono monotono di un sax provenire dal palazzo di fronte. Probabilmente qualcuno si stava esercitando con il sassofono. Mi è piaciuto moltissimo svegliarmi con il suono sbilenco di questo strumento a fiato, nonostante l’esecuzione amatoriale. Prima di alzarmi dal letto mi sarebbe piaciuto osservare la mia menade dormiente, ma al momento ella non esiste. In questo istante la mia finestra aperta fa da usciere a un vento leggero e ad alcuni raggi solari. Da circa una settimana, nella mia cittadina, si susseguono giornate sempre più belle e questo credo che sia un chiaro avvertimento dell’invasione primaverile. Di solito sto bene, ma stamani riesco addirittura a toccare il cielo con un dito. In giornate come queste, battezzate da risvegli celestiali, metto in dubbio la natura mortale dell’essere umano. Per me è bizzarro come questa stagione possa condividere la mia serenità e atti biechi narrati dalla cronaca quotidiana: rapimenti, emersioni di doppie personalità, violenze domestiche e scandali politici. Ogni giorno, da qualche parte, avviene un acting out che assume forme inquietanti. Sono uno spettatore del mondo mimetizzato da comparsa inerte. Metto il punto a questa frase e inizio la mia, solita, giornata.
È una giornata soleggiata. Ho trascorso le prime ore pomeridiane alle prese con una simulazione bellica su Internet assieme ad altri giocatori europei. Quattordici persone, talvolta più, intente a uccidersi virtualmente. Forse a ventuno anni dovrei smetterla di alienarmi con i videogiochi, ma non ho ancora trovato nulla di meglio da fare. L’unico pensiero che in questo momento popola il mio cerebro è la cena: un vasetto di yogurt da cinquecento grammi. Non ho molto da scrivere. Continuo a credere che nella mia vita manchi una presenza femminile. Il mio compleanno è il sei giugno e ciò che significa che tra meno di tre mesi compirò ventidue anni. Mi chiedo se il numero ventidue abbia una qualche valenza cabalistica. Alle volte mi rende cupo pensare ai giorni che ho speso su questo pianeta, ma ogni volta riesco a ribellarmi alle ombre del passato e della noia. Io sorrido anche se non c’è un cazzo da ridere. Sto bene? Sì, e questo è l’importante. Voglio vivere a lungo, a lungo.