Quest’oggi mi sono svegliato alle cinque e mezzo del pomeriggio. Mi sento riposato e in forze. Vorrei avere un’agenda per gli impegni, ma non saprei come riempirla, probabilmente la scarabocchierei con disegni insulsi. Qualche minuto fa ho finito di mangiare un piatto di riso e due kiwi, in altre parole il mio pranzo. Domani pomeriggio devo ricordarmi di chiamare la scuola guida per fissare i giorni e gli orari per fare la pratica. Non ho mai guidato in vita mia, eccetto nei giochi di corse su Playstation. Non ho mai avuto uno scooter e non l’ho mai voluto. Mi piacerebbe possedere un sommergibile, anche se ammetto le difficoltà del mezzo per raggiungere l’entroterra. Non sono mai stato un patito dei motori, non mi piacciono né la formula uno né il motomondiale, però adoro i videogiochi di racing. Sono quasi le sette di sera e non sono particolarmente ispirato a mescolare parole in questo calderone virtuale. Continuo a sorseggiare un po’ di acqua per idratarmi e accompagno il flusso del tempo con il mio ozio.
Nella Grecia antica il termine kalokagatia rappresentava la bellezza ideale formata dalla compresenza della prestanza fisica e delle qualità morali. Nel microcosmo sociale di provincia, nel quale ho sguazzato per anni, ho notato punti di vista divergenti riguardo al rapporto tra i sessi. C’è chi usa “figa” come intercalare e aspetta il sabato sera per adescare un po’ di carne in discoteca, c’è chi è più riflessivo e cerca con ingenuità un rapporto profondo e complice. Alcuni asseriscono di essere interessati unicamente alle misure: i maschi bramano taglie da modelle e le femmine sognano tanti centimetri fallici e bicipiti in vista. Altri sostengono che la bellezza fisica non conti poi così tanto e che per loro l’importante è ciò che “sta dentro una persona”. Ciò che sta dentro a una persona: il pancreas, il fegato, i polmoni o i reni? Da una parte ci sono gli estremisti dell’estetica, dall’altra personaggi frustrati che tentano di colorare con romanticismo ingenuo le pareti delle loro delusioni: nel mezzo ci sono tante sfumature sociali che credo siano difficili da riportare in quattro righe. Io, non potrei mai essere attratto solo dall’aspetto fisico di una ragazza o semplicemente dal suo carattere. Perché mi dovrebbe piacere una ragazza vuota ma con un corpo perfetto? Se mi interessasse solo il corpo potrei andare a mignotte e accompagnarmi a signorine sempre più belle. Seguendo lo stesso ragionamento non credo che riuscirei a innamorarmi di una ragazza acculturata e intelligente, ma con un corpo in avanzato stato di decomposizione. Credo che occorra equilibrio, come nella maggior parte delle cose. Ritengo che la cura del proprio corpo sia importante in quanto rappresenta una prova materiale della propria forza di volontà. Certo, nessuno, almeno in questa epoca, è in grado di fermare gli effetti del tempo, ma è pur vero che in un rapporto durevole l’occhio tende ad abituarsi alla disarmonia graduale delle forme per vivere nel loro ricordo e assaporare le geometrie di una personalità veneranda. Penso che la bellezza sia soggettiva, ma fino a un certo punto. Alcune persone si ritengono eslcuse dai rapporti sentimentali per la loro noncuranza fisica e affermano di non essere apprezzate per ciò che sono: per me queste sono solo scuse dietro le quali si nascondono, spesso ma non sempre, profonde insicurezze. Curare il proprio corpo, non nei termini dell’estetica ma in quelli della salute, significa rispettare sé stessi. Come in ogni campo vi è chi esagera ed enfatizza il lato esteriore dell’estetica e in particolare mi riferisco ai coglioni che abusano di anabolizzanti e veleni simili, e alle ragazzine che rincorrono l’anoressia. L’estetica ha una sua profondità e alcuni non dovrebbero guardare alle forme del corpo come semplice meta a cui puntano molti giovani, e non, flagellati dalle tendenze fashion e dall’utopia di risolvere i loro problemi con una bella presenza fisica. Frasi chiave: la profondità dell’estetica e non la sua esteriorità, l’estetica come simbolo della propria volontà e la costante coltivazione di uno stato di salute come tributo al rispetto di sé stessi. Talvolta i più superficiali sono gli accusatori della superficialità. Scrivo la chiusa di questa breve disamina e mi appresto a masturbarmi.
Nella mia vita è sempre mancata una figura paterna. Mia madre ha assolto da sola i compiti di genitore e di donna in carriera. Fino a qualche anno fa un signore di quasi cinquant’anni diceva di essere mio padre, ma io non gli ho mai creduto. Il mio presunto padre, al quale effettivamente assomiglio, si è separato da mia madre ed è tornato a vivere nel suo comune di nascita con una ex amica anemica di mia madre. È la classica storia provinciale. Il mio presunto padre è una persona debole e devastata dai complessi: è un fumatore calvo con qualche chilo di troppo. Mia madre ha sette anni in più di lui e non ha mai accettato di farsi sposare. Ormai non ho più l’età anagrafica per avere un padre e mi considero un mezzo orfano. Purtroppo i genitori non si possono scegliere; a me non è andata poi così male. Sono un viziato mantenuto e libero da ogni responsabilità. Mia madre vive con me sei mesi all’anno e i miei pasti spesso sono preparati da mia nonna che abita in un’appartamento poco distante dalla mia porta. Mia nonna mi sta sul cazzo per i suoi comportamenti isterici, per questo motivo la evito da circa un anno e le permetto solo di portarmi il pranzo. Come ho già scritto: a me non basta un legame sanguigno per giustificare sentimenti d’affetto. La mia famiglia è formata da me, da mia madre e da un vecchio pastore maremmano. Alcune volte le donne si intestardiscono e pensano di essere in grado di cambiare i loro uomni: talvolta ciò non accade. Sto ascoltando “Stairway to Heaven” dei Led Zeppelin e mi preparo a mangiare.
Sono passate le cinque del mattino e sono ancora in piedi. Ho realizzato una breve sequenza di immagini per tenermi occupato durante le ore notturne. In questo breve video senza pretese, che si può scaricare cliccando qui, vaneggio con la mia voce per un minuto e mezzo mentre scorrono i frammenti scelti dal mio gusto. Forse in futuro realizzerò qualcos’altro di simile con l’ausilio di una telecamera digitale per riprendere momenti della mia quotidianità. Nei prossimi giorni ho intenzione di creare una photo gallery. Non sono un appassionato di fotografia, ma dilettarmi con la digitale può essere un modo come un altro per ingannare il tempo quando esso si fa furbo. Mi auguro di addormentarmi prima delle otto del mattino, ma la vedo dura. Le ultime note della mia giornata sono affidate ai virtuosismi di Vinnie Moore.
Tendo ad abusare dell’ironia. Tratto con ilarità la morte, le malattie, i drammi personali, l’inibizione comunicativa della persone e ogni altro argomento che di solito riesce a scuotere le corde della sensibilità umana. Ironizzo molto su me stesso e sul mio vuoto emozionale che mi obbliga a massaggiarmi lo scroto. Per me la scrittura è catartica, mi purifica, ma ultimamente mi sono accorto che queste righe rappresentano anche la masturbazione del mio intelletto. Potrei scrivere queste parole sulle pareti dei cessi di una stazione ferroviaria e per me continuerebbero ad avere la stessa valenza masturbatoria. Provo un’attrazione morbosa verso la verità e alcune volte tendo a rincorrerla anche quando essa risulta dannosa per i miei interessi. Sono attratto dall’amore e non smetterò mai di sottolinearlo. La mia visione dell’amore non è fiabesca, ma ha sicuramente una grande componente di romanticismo moderno. Non smetterò mai di ripeterlo a me stesso: non sono un tipo adatto ai flirt con le pin-up provinciali, il mio assetto sentimentale mi permette solo storie a lungo termine. In quasi ventidue anni non ho mai avuto una flirt né una storia durevole: il mio cuore è vergine come il mio uccello. Alcune volte mia madre mi taccia di insensibilità perché dileggio la morte, forse prossima, di mia nonna. Non riesco a pormi in modo serioso nei confronti della morte perché da piccolo ho imparato a esorcizzarla. Forse assumerò un tono più serio se incontrerò qualcuno a cui mi legherò veramente. Non provo affetto per nessuno dei miei pochi familiari e non ho mai nascosto loro questa verità. Sono in grado di provare affetto e di amare, ne sono certo, ma per me non basta un legame sanguigno a giustificare sentimenti così profondi. Provo un po’ di bene per mia madre, ma credo che buona parte di questo lieve sentimento positivo nei confronti della mia genetrice derivi dal complesso di Edipo. In questa fase della mia vita non sento il bisogno dell’amicizia, nonostante io sappia relazionarmi con gli altri e mantenere legami solidi. Non ho mai avuto un legame solido e non ho mai amato, ma asserisco di essere in grado di fare entrambe le cose: sono abbastanza onesto con me stesso per sapere che è così. A me farebbe comodo comportarmi come la tipica persona incazzata con il mondo, ma non ho bisogno di un’ennessima maschera perché ho lasciato da tempo il palcoscenico delle cazzate. Sono un ragazzo tranquillo con un bagaglio di delusioni né più grande né più piccolo di quello di tanti altri. Purtroppo non ho collezionato abbastanza eventi spiacevoli per professarmi vittimista, la mia raccolta di punti esistenziali mi permette unicamente di desiderare un’analisi oggettiva della mia vita, anche quando tale analisi mi infastidisce o lede il mio narcisismo. Vivo con scioltezza e faccio surf sul vuoto in attesa che finisca l’onda del nulla per stendermi sulle sabbie di una prima, e spero unica, passione. Certe volte cado nel tranello della banalità della malinconia e rimango assuefatto dal suo aroma emotivo: per fortuna riesco a liberarmi sempre più spesso, e con grande facilità, delle tentazioni depressive. Non è sempre facile rimanere razionali e allo stesso tempo coltivare sensazioni che hanno poco a che fare con la ragione, ma credo che riuscire a mantenere un equilibrio, tra l’altro crescente, per la maggior parte del proprio tempo, sia un ottimo risultato. Sono convinto che la ragione e il sentimento non devono essere scissi, ma devono essere dosati opportunamente per dare vita a un’alchimia corretta.
Anche oggi mi sono svegliato alle tre e mezzo di pomeriggio. È un sabato ombroso che credo, forse erroneamente, non abbia nulla da offrirmi. La mia testa ruota e il mio sguardo cerca qualcosa per mettere in moto l’ispirazione pomeridiana, ma non c’è nulla che riesca ad accendere la mia verve. Keiko Matsui, una tastierista fusion nipponica di talento, mi fa compagnia in questa prima parte della mia giornata. La quiete possiede ancora le chiavi della mia vita e non sembra intenzionata a cederle. Mi sembra di vivere le ore seguenti al dies irae, ovvero il giorno del giudizio in cui credono i cristiani. La mia pace è frutto di un inverno nucleare e si espande così velocemente da risultare impercettibile ai sensi umani. Spesso sono monotono, ma le parole che ripeto non sono altro che il riflesso della mia esistenza pacata. Sono vivo come altri miliardi di persone e lascio che il tempo porti occasioni per un nuovo inizio o che incida un epitaffio sulla mia carne prima che essa vada in necrosi.
Il pugno di ferro della noia giovanile
Pubblicato sabato 25 Marzo 2006 alle 05:26 da FrancescoPer le strade di Marsiglia si aggiravano quattro balordi con il trip di Arancia Meccanica. I quattro giovani erano soliti inneggiare alla violenza gratuita e alla droga sintetizzata. Non è ancora il momento di parlare di loro. Un vecchio marsigliese di nome Henry era chiuso nel suo appartamento ed era intrappolato nel proprio lutto a causa della morte della moglie. Nella sua testa echeggiavano le parole di padre Antoine: “Cenere alla cenere, polvere alla polvere”. La sua Marie amava gli animali e ogni giorno portava del cibo ai cani e ai gatti della sua via. Il futuro aveva in serbo anni di solitudine e pasti freddi per la fase crepuscolare di Henry. Erano le sette di sera, il cielo di Marsiglia iniziava a tingersi di nero e le lampade incominciavano a verniciare le finestre dei palazzi con un giallore tenue. Henry decise di uscire per raggiungere il bar dove sovente aveva speso i suoi anni migliori e molti guadagni del suo lavoro di imbianchino. Raggiunse l’entrata del bar e notò, con dispiacere, che era chiuso. Non volle tornare a casa, perciò iniziò a fare lo slalom tra i lampioni, spinto dai ricordi della giovinezza e dai baci ventenni della sua Marie che proprio quel pomeriggio era andata a riposarsi due metri sottoterra. Alla sua destra vi era una lunga fila di panchine e su ognuna di esse si notavano scritte di speranza, di rabbia e d’amore fatte con i pennarelli. In terra, tra la ghiaia, c’erano piccoli tesori del consumismo: qualche lattina deformata di Coca-Cola, mozziconi di sigarette, fazzoletti arrotolati, tappi e buste di plastica. Alcuni pezzi di vetro verde, presenti sulla pavimentazione, giocavano con le luci dei lampioni e proiettavano i propri riflessi nelle retine di chi osava fissarli. Un quadrupede irruppe tra le gambe di Henry ed egli, in ricordo di sua moglie, lo osservò con malinconia e poi gli allungò uno snack alle nocciole sul palato. Prese ad accarezzare il pelo maculato dell’animale, si intenerì e decise di portare il cane con sé. Cambio inquadratura e inizio un primo piano del gruppo di quattro giovani che ho accennato all’inizio. Non ricordo i loro nomi, ma ricordo le loro facce: butterate, iniettate di sangue e devastate dall’abuso di alcol. I quattro si aggiravano per le strade di Marsiglia, a bordo di una Renault Clio, in cerca di vittime. Erano dediti ai pestaggi gratuiti e alle rapine dei passanti. Provenivano tutti da famiglie bianche e agiate. Adoravano praticare il razzismo e lanciavano grida e insulti contro i maghrebini. Tre di loro, una volta, scesero dall’auto per pestare un tunisino che aveva risposto ai loro insulti: il tunisino fu pestato a sangue e la sua ragazza fu spogliata e presa a calci nel ventre senza che nessuno intervenisse. I tre tornarono in macchina, l’autista fece marcia indietro e uno dei quattro giovani si sporse dallo sportello, sputò in faccia al tunisino e poi diede l’ordine di ripartire velocemente tra l’indifferenza dei passanti. Episodi analoghi erano all’ordine del giorno per questi squadristi transalpini. I quattro riabbiosi a bordo della Clio notarono la pesante figura di Henry e decisero di dare sfogo al loro sadismo; incominciarono a coprirlo di insulti, senza che lui reagisse. Henry era un uomo nero di sessantacinque anni, con pochi capelli bianchi e una pancia gonfia. I quattro s’incazzarono perché le loro parole non avevano effetto. Fermarono l’auto e tutta la quadriglia scese per dilettarsi in una pratica più antica della prostituzione: la sopraffazione del più debole. “Faccia di culo, dammi quel cane di merda”, esordì uno dei balordi. Henry rispose con un mugito e non disse una parola. “Dì un po’ vecchio, vuoi farmi incazzare?” continuò lo stesso ragazzo. A un tratto uno dei quattro fece un gesto improvviso e strappò il cane dalla stretta di Henry. L’anziano tentò di ribellarsi, ma due del gruppo lo colpirono e lo costrinsero a restare con la faccia sul selciato. Un terzo esponente della gang rideva e fumava, mentre il quarto ragazzo teneva il proprio piede sulla testa del cane. Henry guardava il cucciolo ed era straziato dal guaito dell’animale. Il cane guaì sempre più forte e smise quando la sua testa venne completamente schiacciata dal piede del ragazzo. “Vaffanculo, mi sono macchiato” disse il giovane omicida del cane che poi si tolse gli stivali sporchi di sangue per lanciarli contro la faccia di Henry. Lo spettatore del gruppo disse: “Andiamo a guardare i quarti di finali della Champions League, ho scommesso trenta euro su quella cazzo di partita”. I quattro risalirono in macchina e tutto continuò come non si era mai interrotto.
Mi sono alzato dal letto alle tre e mezzo di pomeriggio e al mio risveglio sono stato accolto da una giornata piovosa. Continua tuttora a piovere. Sono nella mia stanza e come al solito ascolto un po’ di musica. Oggi il compito di ritmare i miei minuti è affidato al sax di Wayne Shorter e al basso di Marcus Miller. Ho letto qualche trafiletto della cronaca quotidiana e ho notato che anche oggi è tutto nella norma: vendette trasversali, colpi d’arma da fuoco, battibecchi politici, nuovi culi in mostra e strade bloccate dal traffico. Sono seduto davanti al monitor, indosso una maglietta bianca dell’Adidas e un paio di pantaloncini, sorseggio dell’acqua naturale dalla bottiglia e penso a cosa potrei fare nelle ore a venire. La mia quiete ha molte facce e io le adoro tutte. Talvolta si mostra a me una pacatezza inquietante che emana un odore sgradevole di vuoto, altre volte il viso della mia flemma è l’incarnazione del riposo. Esistono molti aspetti della mia vita solipsistica e talvolta faccio fatica a tenere testa a tutte queste sfaccettature. Ogni giorno cresce in me la convinzione che solo un duetto può mettere in scena lo spettacolo armonioso della felicità. Ho scoperto che a breve distanza dalla mia abitazione esiste una casa chiusa. Nell’ultimo periodo ho notato una notevole proliferazione di mignotte e credo che sia normale: gli istinti chiamano e il denaro risponde. Tempo fa ho ipotizzato di andare con una prostituta per assaporare un po’ di affetto artificiale, ma poi mi sono ripromesso di non farlo perché non mi piacciono le vie di mezzo in ambito sentimentale. Se devo solo svuotarmi i coglioni lo posso fare da solo. Attorno a me sento spesso visioni maschilistiche e apparentemente virili riguardo alla relazione tra i sessi e non solo da parte degli uomini. Per me la copulazione fine a sé stessa è un atto naturale, ma non riesco ad accettarla senza la presenza di un collante sentimentale. Wayne Shorter continua a esaltarsi in “Pandora Awakened”, mentre io mi appresto a sforzare il mio corpo.
Cerco di immaginare il tumulto emotivo di chi si appresta a uccidersi. Alcune volte è un cappio ben stretto a dare corda agli ultimi pensieri di un cadavere, altre volte è un proiettile calibro trentotto a causare l’ultima esplosione d’estasi. In alcune occasioni gli psicofarmaci diventano il dessert dell’ultima cena. L’icona del suicidio per me è rappresentata dalle tempie di un gerarca nazista e dalla canna della sua Ruger. Ci sono altre immagini che associo subito a questa forma di morte e mi accingo a descriverle nelle prossime righe. Una ragazza distesa su un letto, una cenerentola livida uccisa da una passione non corrisposta e accompagnata nella sua morte dal volume alto di una canzone pop melensa. Un uomo di potere logorato dalla sua cupidigia: può essere un banchiere, un politico o un manager. L’adolescente che non riesce a sopportare il peso del mondo e decide di provare la leggerezza di restare a mezz’aria con il collo avvolto da una fune. Una coppia di innamorati che, ostacolati da determinate condizioni sociali, decidono di spiccare il loro ultimo volo d’angelo da un promontorio. Le immagini che scaturisono da queste ultime righe rappresentano i cardini della mia iconografia legata al suicidio. Nel giappone feudale esisteva il seppuku, anche conosciuto come harakiri, ovvero una forma di suicidio, particolarmente in uso nella casta dei samurai, che permetteva di espiare una colpa ed evitare una morte disonorevole. Il seppuku si esegue con la recisione del ventre da parte del suicida e termina con la decapitazione di quest’ultimo eseguita dal kaishaku, ovvero colui che deve assistere il morente con un colpo di spada preciso. Il suicidio ha molte sfumature, accezioni diverse e strade diametralmente opposte. In passato, come ho già scritto, ho ponderato l’idea del suicidio ma non l’ho mai messa in pratica. Credo che molte persone, non solo nei momenti più cupi, si trovino a riflettere sulla propria vita e sulla possibilità di farla cessare. Non biasimo chi si uccide, ma io preferisco continuare a respirare. Chi è realmente in grado di togliersi la vita può essere altrettanto abile nella creazione di nuove opportunità per ottenere il proprio riscatto; ne sono convinto. Penso che talvolta l’instabilità psicologica di una persona risoluta a morire non permetta a costei di rendersi conto della propria forza caratteriale, di come quest’ultima possa sfuggire al suo controllo e risulti quindi difficile da sublimare. Ritengo che alcune volte la morte sia una scelta giusta, come nei casi di certi malati terminali che decidono di ricorrere all’eutanasia. Non ho la minima intenzione di crepare, voglio raggiungere la vecchiaia e defungere di morte naturale rimanendo lucido fino all’ultimo battito delle mie ciglia. Una domanda mi sorge spontanea: perché ho scritto tutto ciò? Mi rispondo nelle righe che seguono. Ho dissertato sul suicidio perché so che in questo preciso istante ci sono bicchieri che cadono da un tavolo, speranze di cristallo frantumate sopra la realtà marmorea, grida e pianti, luci con l’intermittenza guasta, friogriferi vecchi e vuoti, e tavoli di cucina simili alle scrivanie della Gestapo. So che in questo momento qualcuno cerca un motivo per vivere, ma trova solo centinaia di ragioni per smettere di campare. I drammi incrementano l’industria funeraria e la densità demografica dei sepolcri. Non ho morti per cui piangere, così come non ho vivi per cui sorridere, mi trovo al purgatorio e sono determinato a prolungare la mia esistenza il più a lungo possibile senza preoccuparmi della prossima destinazione. Lode a chi si uccide con stoicismo, compassione e crisantemi appassiti per chi viene ucciso dalla debolezza del proprio suicidio.