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L’aspirante suicida

Cerco di immaginare il tumulto emotivo di chi si appresta a uccidersi. Alcune volte è un cappio ben stretto a dare corda agli ultimi pensieri di un cadavere, altre volte è un proiettile calibro trentotto a causare l’ultima esplosione d’estasi. In alcune occasioni gli psicofarmaci diventano il dessert dell’ultima cena. L’icona del suicidio per me è rappresentata dalle tempie di un gerarca nazista e dalla canna della sua Ruger. Ci sono altre immagini che associo subito a questa forma di morte e mi accingo a descriverle nelle prossime righe. Una ragazza distesa su un letto, una cenerentola livida uccisa da una passione non corrisposta e accompagnata nella sua morte dal volume alto di una canzone pop melensa. Un uomo di potere logorato dalla sua cupidigia: può essere un banchiere, un politico o un manager. L’adolescente che non riesce a sopportare il peso del mondo e decide di provare la leggerezza di restare a mezz’aria con il collo avvolto da una fune. Una coppia di innamorati che, ostacolati da determinate condizioni sociali, decidono di spiccare il loro ultimo volo d’angelo da un promontorio. Le immagini che scaturisono da queste ultime righe rappresentano i cardini della mia iconografia legata al suicidio. Nel giappone feudale esisteva il seppuku, anche conosciuto come harakiri, ovvero una forma di suicidio, particolarmente in uso nella casta dei samurai, che permetteva di espiare una colpa ed evitare una morte disonorevole. Il seppuku si esegue con la recisione del ventre da parte del suicida e termina con la decapitazione di quest’ultimo eseguita dal kaishaku, ovvero colui che deve assistere il morente con un colpo di spada preciso. Il suicidio ha molte sfumature, accezioni diverse e strade diametralmente opposte. In passato, come ho già scritto, ho ponderato l’idea del suicidio ma non l’ho mai messa in pratica. Credo che molte persone, non solo nei momenti più cupi, si trovino a riflettere sulla propria vita e sulla possibilità di farla cessare. Non biasimo chi si uccide, ma io preferisco continuare a respirare. Chi è realmente in grado di togliersi la vita può essere altrettanto abile nella creazione di nuove opportunità per ottenere il proprio riscatto; ne sono convinto. Penso che talvolta l’instabilità psicologica di una persona risoluta a morire non permetta a costei di rendersi conto della propria forza caratteriale, di come quest’ultima possa sfuggire al suo controllo e risulti quindi difficile da sublimare. Ritengo che alcune volte la morte sia una scelta giusta, come nei casi di certi malati terminali che decidono di ricorrere all’eutanasia. Non ho la minima intenzione di crepare, voglio raggiungere la vecchiaia e defungere di morte naturale rimanendo lucido fino all’ultimo battito delle mie ciglia. Una domanda mi sorge spontanea: perché ho scritto tutto ciò? Mi rispondo nelle righe che seguono. Ho dissertato sul suicidio perché so che in questo preciso istante ci sono bicchieri che cadono da un tavolo, speranze di cristallo frantumate sopra la realtà marmorea, grida e pianti, luci con l’intermittenza guasta, friogriferi vecchi e vuoti, e tavoli di cucina simili alle scrivanie della Gestapo. So che in questo momento qualcuno cerca un motivo per vivere, ma trova solo centinaia di ragioni per smettere di campare. I drammi incrementano l’industria funeraria e la densità demografica dei sepolcri. Non ho morti per cui piangere, così come non ho vivi per cui sorridere, mi trovo al purgatorio e sono determinato a prolungare la mia esistenza il più a lungo possibile senza preoccuparmi della prossima destinazione. Lode a chi si uccide con stoicismo, compassione e crisantemi appassiti per chi viene ucciso dalla debolezza del proprio suicidio.

Francesco

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