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Voragini pietroburghesi

Arrivò all’aeroporto di Pulkovo nel primo pomeriggio e iniziò subito ad arrendersi all’accerchiamento delle segnaletiche cirilliche. Prese il suo bagaglio, comprò una barretta di cioccolato e si sottopose alla burocrazia aeroportuale. Carlo era un giovane toscano aitante senza più speranze. Si era risolto a partire per la Russia dopo il fallimento dell’azienda di suo padre, un fallimento causato dalla sua cattiva amministrazione. Non era religioso, ciò nonostante durante tutta la tratta aerea Fiumicino-Pulkovo aveva recitato un continuo mea culpa. Aveva raggiunto San Pietroburgo con l’idea di morire e voleva farlo tra le strade descritte dalla penna di Dostoevskij. Uscì dall’aeroporto dopo i controlli di rito, si accese una sigaretta e iniziò a cercare un taxi. Un uomo di mezza età, tarchiato e basso, iniziò a caricare le valigie di Carlo sulla propria auto senza proferire parola. La nicotina cadde a terra, schiacciata dal piede dell’italiano, il diesel della vettura sovietica si mise in moto e una fumata di smog offuscò il marciapiede. L’autista iniziò una logorrea russa con l’intento di truccare il tassametro senza farsi notare. Anche se Carlo avesse notato il trucco non avrebbe protestato perché gli interessava soltanto vivere la sua prima giornata russa e le sue ultime ore di vita. Aveva sempre sognato di recarsi in Russia e vedeva questo viaggio come una giusta liquidiazione dal suo battito cardiaco trentennale. Il russo si chetò dopo aver manomesso il tassametro, poi accese la radio e intonò con voce gutturale una canzone popolare. Carlo, all’inizio, non sapeva dove farsi lasciare, gli venne in mente una canzone di Franco Battiato e decise di fermarsi presso la prospettiva Nevsky. Scese dall’auto e allungò al tassista più rubli di quanti gliene dovesse senza preoccuparsi del resto. Salutò il truffaldino e iniziò a percorrere una delle strade più famose al mondo. I suoi occhi spiarono il colonnato della cattedrale di Kazan, il suo volto si riflesse sulle acque dei canali e la sua psiche lo indusse a trovare un albergo. Dopo un lungo vagare raggiunse un hotel a tre stelle di cui non ricordo il nome. Esibì il suo passaporto alla reception e chiese una stanza singola con l’ausilio del suo inglese maccheronico. Una bellissima ragazza russa gli rispose con cortesia, prese il compenso per una notte e gli porse la chiave della stanza numero quindici. Le quattro mura temporanee erano state riempite con mobili modesti e vecchi; un letto scomodo, un televisore non funzionante e un bagno senza cesso. Carlo si fece una doccia, si vestì e strinse al petto gran parte del suo denaro. Egli trascorse un’ora, dalle diciassette fino alle diciotto, steso sul letto, riflettendo su sé stesso, sulla propria vita e sulla fine di quest’ultima. Usò il bagno comune per pisciare, uscì dall’albergo e inizò a cercare i luoghi più malfamati della vecchia Leningrado. Il buio faceva capolino dal cielo e l’illuminazione urbana iniziava a propagarsi. Il suo cammino continuò per circa un’ora, a volte spezzato da piccole pause per osservare bellezze architettoniche come l’immagine lontanta della chiesa del Sangue Versato. Raggiunse luoghi periferici e incominciò a guardare con più attenzione le facce delle persone. Il suo istinto lo portò a entrare in una bettola dalla quale provenivano grida e musica, mentre nella sua mente apparivano le immagini del muro di Berlino e dei dibattiti sulla perestrojka. Appena entrato iniziò a squadrare alcuni ragazzi, poi si recò al bancone dove ordinò una bottiglia di vodka. Una cameriera, un po’ paonazza e alticcia, lo servì. Carlo bevve un sorso di vodka, si avvicinò sorridente ad alcuni ragazzi e colpì uno di essi con la bottiglia. Vetri in terra, sangue ad altezza d’uomo e acuti femminili che sembravano presi in prestito dal teatro Mariinsky. La compagine russa portò Carlo fuori dalla bettola e lo malmenò con calci e pugni fino alla sua morte apparente. La polizia giunse sul posto dopo quaranta minuti. Carlo non era morto. Un’ambulanza lo portò d’urgenza in terapia intensiva mentre gli agenti si accertarono della sua identità. Fu avvertita la famiglia in Italia tramite il consolato. Il padre raggiunse il figlio e vegliò su di lui fino alla morte di quest’ultimo che sopraggiunse dopo tre settimane di coma.

Francesco

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