Mi vedo in una zona imprecisata dell’Asia. Deambulo tra animali da soma e teste coperte dalla kefiah. Sono circondato da tante parole rumorose dedite allo scambio di mercanzie nel polveroso bazar cittadino. L’architettura dell’urbe è ammantata dalla sacralità delle divinità aniconiche e dalla memoria di una ritualità ancestrale. L’aria è viziata dagli odori pesanti provenienti dalle cucine di donne stanche e rassegnate. Uomini anziani sbirciano le anime dei passanti, mentre i bambini, che un giorno prenderanno il loro posto, corrono senza una meta tra lo stridore delle voci coperte dall’ala della povertà. Il sole disegna ombre all’interno di vecchie automobili e fa risplendere i ricordi dei cofani arrugginiti. Uomini scuri, nel pieno del loro vigore, accennano melodie etniche e sussurrano imprecazioni contro le radiazioni solari. Donne troppe belle per l’umanità sperano che io non le guardi, e allo stesso tempo si augurano che io deluda le loro speranze per imboccare il loro ingenuo narcisismo; il volto della loro femminilità è avvolto dai colori del chador. Qua il cielo non è blu, è biblico. Io, feroce bestemmiatore maremmano, puro miscredente, non riesco a pofanare l’etere di questa incantevole valle di un passato presente.
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